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Missione. Africa: noi e la felicità che si gioca tra brousse e asfalto

L’Africa che ho visto nel mio ultimo viaggio di 13 giorni è un continente diverso da quello che avevo lasciato cinque anni fa. All’epoca, quando finivo il mio periodo di formazione in Tchad, si parlava già del petrolio e si potevano anche vedere i primi timidi cambiamenti che questo avrebbe innescato nell’economia africana. Questa volta però, entrando in Togo per la strada che attraversa il confine con il Benin e che porta fino al Ghana, mi sono reso conto del passo accelerato con cui l’Africa si sta muovendo. Certo, come un onda che trascina via dalla riva ogni sorta di oggetto che riposa sulla spiaggia, è un movimento caotico che porta con sé persone, famiglie, quartieri, tutto si sposta al ritmo di un commercio vivo, ma ingiusto e disordinato.

La città, ci diceva padre Bernard, sta aumentando ogni anno di nuove abitazioni mentre si aprono cantieri a basso costo per allargare strade o per scavare fondazioni per nuovi ponti, al ritmo di operai cinesi e africani che parlano lingue diverse ma che si intendono sulla enormità del lavoro che questo continente strabordante di ricchezze minerarie dona loro. L’Africa che ho visto assomiglia ad un cantiere rumoroso e polveroso che continua ostinato il suo lavoro di trasformazione della terra rossa, nonostante il caldo, le malattie, le povertà e la corruzione; tutte queste cose prese e mescolate insieme diventano il nuovo amalgama di un cemento che vuole seppellire la brousse e lasciarsi alle spalle, come un ricordo scomodo e imbarazzante, l’Africa rurale, quella che cammina a piedi per chilometri e che non conosce l’asfalto liscio su cui ora il nostro taxi con aria condizionata sta correndo mentre approdiamo al grand marchè della capitale.

Eppure l’Africa rurale, quella del villaggio e della brousse, è iscritta nel DNA di questo continente, ed è lì che l’africano ritrova le sue origini anche se non per forza il suo avvenire. Questa Africa è quella che ho potuto vedere per le 22 ore di bus (questa volta senza aria condizionata) che dall’oceano ti portano a Ouagadougou, la capitale di un paese piantato al centro dell’Africa Occidentale e molto più povero e arido di quelli della costa. E’ nato in me l’idea chiara che su questo contrasto fra brousse e asfalto (su questa tensione fra radici e futuro, fra terra dei padri e immigrazione selvaggia) si giocherà la felicità di questo continente; sulla strada tesa fra passato e presente i gesuiti in Africa vogliono avanzare con il passo dell’educazione, della cultura e della spiritualità. La convinzione sta in questo: che l’uomo ha energie interiori che possono fermare quel gigantesco processo per cui l’uomo finisce per essere l’appendice di una betoniera cinese o la formica che affoga nel mare nero del petrolio che cola a fiumi dalla Nigeria.

Sono tornato in Italia e ora ho voglia di lavorare, di parlare, di insistere e di convincere: se le nostre mani restano forti, gli occhi aperti e i nostri cuori attenti si può fare molto. Non prende sonno il custode d’Israele.
P. Renato Colizzi SJ

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