Domande frequenti
Il nostro fondatore Ignazio di Loyola voleva che ci chiamassimo “amici nel Signore”, per ricordare continuamente che il nostro stare insieme è frutto di una forte relazione personale con il Signore, e questa ci rende “amici” tra di noi. Da qui deriva il termine “compagni” e Compagnia di Gesù.
Nei suoi scritti Ignazio non ci ha mai chiamato “gesuiti”. Il termine “gesuita” era già diffuso ai tempi del medioevo per indicare persone particolarmente devote al nome di Gesù ed era utilizzato per lo più in senso dispregiativo. Così già nel 1544 i nostri primi compagni venivano disprezzati o derisi con il nome di “gesuiti”. Questo appellativo, breve e immediato, ha iniziato a diffondersi anche all’interno della Compagnia perché, preso seriamente, dice la verità di quello che vogliamo essere.
Nel corso dei secoli il termine si è colorato di sfumature negative diventando sinonimo di “falso” e “ipocrita”, perché una fiorente letteratura antigesuitica ci dipingeva come disposti a tutto pur di raggiungere posizioni di potere. Il gesuita missionario Matteo Ricci, in effetti, usava come strategia apostolica quella di ingraziarsi i regnanti locali, magari con doni sorprendenti provenienti dall’Europa che suscitavano curiosità e attiravano l’attenzione. Ma il suo fine ultimo non era quello di ottenere potere, bensì di evangelizzare e garantire una struttura sociale che permettesse al cristianesimo di radicarsi e svilupparsi.
Anche il nostro modo di vestire è soggetto a discernimento in funzione dell’opportunità apostolica. Ci sono luoghi dove è necessario indossare il clergyman e rendersi esplicitamente riconoscibili. In altre situazioni dove invece l’abito riconoscibile sarebbe di ostacolo alla nostra missione. Del resto, non è l’abito che fa il monaco…
La Compagnia di Gesù è un gruppo di preti riformati, raccolti in un ordine religioso. Ogni gesuita partecipa a questo carisma sacerdotale, a partire dalla sua condizione. Dunque non siamo preti diocesani, bensì religiosi, ma non siamo né frati, né monaci.
Le case in cui viviamo non sono conventi, ma “residenze”, tradizionalmente chiamate con il nome di “case professe”. Solitamente si trovano nel cuore delle città, non in luoghi isolati. I gesuiti possono essere sacerdoti e fratelli. Quando un candidato entra in Compagnia, può dichiarare sin dall’inizio se vuole entrare per diventare sacerdote o fratello, oppure può entrare come indifferente e maturare la decisione dopo il mese di esercizi spirituali.
Ogni gesuita appartiene al Corpo della Compagnia, che è apostolico, religioso e sacerdotale. Ciascuno di noi è chiamato alla missione universale di riconciliazione e giustizia. Però esistono diverse tipologie di gesuita:
– i “coadiutori temporali”, solitamente chiamati “fratelli”, sono religiosi non sacerdoti;
– i “coadiutori spirituali” sono sacerdoti che hanno completato la loro formazione;
– i “padri professi” sono coloro che oltre i tre voti hanno emesso anche il quarto voto di obbedienza diretta al Papa circa missiones.
Oltre ai voti di castità, povertà e obbedienza, alcuni gesuiti emettono anche un quarto voto. I “padri professi” promettono infatti speciale obbedienza al Papa circa missiones, rendendosi disponibili a essere inviati ovunque o comunque a ricevere una qualsiasi missione che il Papa ritenga utile al bene della Chiesa.
La Compagnia di Gesù non è l’unico Ordine a fare un quarto voto. I camilliani, ad esempio, fanno voto di assistenza ai malati, mentre gli ordini monastici fanno un voto di stabilità. Questo voto “in più” ha a che fare con il carisma dell’Ordine, cioè con la maniera specifica di vivere la sequela del Signore. Per i gesuiti questo significa che l’obbedienza speciale che vivono al Santo Padre è al cuore stesso della loro identità.
Per descrivere l’obbedienza cieca Ignazio usa l’immagine del cadavere, già presente nella letteratura spirituale e ascetica fin dalla Legenda maior s. Francisci (6,4) scritta da S. Bonaventura (Opera VIII, 52) nel 1263.
L’obbedienza così concepita da Ignazio è sempre rivolta alla divina Provvidenza o alla persona di Gesù Cristo, non al superiore in sé. Serve per descrivere il radicale attaccamento alla missione affidata al singolo gesuita, quella di essere compagno di Cristo anche e soprattutto nelle difficoltà.
Nell’ottica di Ignazio l’obbedienza è il miglior modo per staccarsi dagli affetti disordinati che dominano l’umanità e impediscono di essere totalmente liberi. Di fatto l’atto di obbedienza è un movimento che coinvolge nello stesso tempo il gesuita e il suo superiore nel sentire cosa lo Spirito suggerisce. L’obbedienza cieca “come un cadavere” è la fedeltà a questo atteggiamento esistenziale di uscita da se stessi.
La formazione dei gesuiti è basata sulla pedagogia ignaziana, che è incentrata sulla persona e punta a sviluppare al massimo le caratteristiche personali di ciascuno. Per questo motivo insiste molto sulla capacità di porre domande per risvegliare curiosità e voglia di approfondire di fronte ai fenomeni da studiare. La qualità di studio delle discipline che ne deriva è elevata perché lo studio non si riduce a una mera accumulazione di informazioni, bensì è un continuo processo di rielaborazione dei contenuti. Come viene sollecitata la capacità di porre domande? Immergendosi profondamente nella realtà quotidiana, lasciando che sia essa stessa a interpellare il cuore e la mente con le sue situazioni e contraddizioni. In questo modo anche dettagli insignificanti a volte riescono ad aprire nuovi orizzonti di conoscenza.
Il riferimento è a Matteo Ricci (1552-1610), gesuita di origine maceratese e missionario in terre orientali. “Bonzo” è un termine entrato nelle lingue europee attraverso Francesco Saverio, e si riferisce ai monaci buddisti. Per entrare in dialogo con la società cinese, Ricci inizialmente si vestì da bonzo, ovvero da persona dedita alla spiritualità. Però ben presto si accorse che in Cina, a differenza del Giappone, i bonzi non godevano di buona fama. Dunque decise di vestirsi da mandarino maestro e letterato, ed entrò nell’ambiente dell’alta cultura cinese affascinando i colleghi con la sua sapienza. La sua saggezza arrivò all’orecchio dell’Imperatore, che lo accolse come suo consigliere. Dunque Matteo Ricci entrò “a corte degli imperatori”, anche se vestito da mandarino e non da bonzo.
Contrariamente a quello che si crede, non è richiesta nessuna laurea. È richiesto solo un diploma di scuola superiore. I titoli di studio che un candidato possiede non sono un elemento determinante per l’ammissione in Compagnia. Così pure lo stato sociale ed economico non rientrano nei criteri di verifica vocazionale. L’età media di ingresso nella Compagnia è intorno ai 25 anni, ma è un dato puramente statistico e non vincolante, segno che negli ultimi anni il desiderio della vita religiosa matura negli anni dell’università.
Un candidato che si presenta con il desiderio di entrare in Compagnia inizia un cammino di discernimento per comprendere insieme alla sua guida se davvero il Signore lo sta chiamando alla Compagnia oppure ad altro. Fare discernimento significa imparare a leggere dentro di sé come lo Spirito parla al cuore attraverso le mozioni spirituali. Un dato statistico interessante è che circa la metà di quelli che iniziano il cammino con noi arrivano fino alla fine. Spesso accade che nel corso del cammino la persona si accorge di essere chiamato a tutt’altra vocazione. Per noi è un successo, perché significa che il discernimento ha fatto il suo corso.
La nostra formazione è basata sulla pedagogia ignaziana, e prevede un’alternanza continua tra studio ed esperienza apostolica. In questo modo l’approccio intellettuale non è concettuale o astratto, bensì radicato nelle domande che emergono dall’essere immersi nel mondo. Dunque non studiamo più degli altri, studiamo in modo diverso.
Quando un gesuita viene incorporato definitivamente nell’Ordine è chiamato a fare una professione solenne pubblica, cioè davanti all’assemblea ecclesiale. Pronuncia i tradizionali tre voti di fronte all’Ostia consacrata, per consegnare la sua vita interamente nelle mani di Dio. Una volta terminata la celebrazione e rientrato in sacrestia, il gesuita fa altri cinque voti semplici di fronte a un ristretto gruppo di confratelli. Per questo si chiamano “voti di sacrestia”. Egli promette di:
– non cambiare le Costituzioni della Compagnia in materia di povertà, se non per renderle più stringenti;
– non cercare e non adoperarsi per ottenere ruoli di autorità nella Compagnia;
– non cercare e non adoperarsi per ottenere ruoli di autorità nella Chiesa;
– riportare ai superiori coloro che invece lo facessero;
– ascoltare i consigli del Padre Generale in caso di nomina all’episcopato
Non si tratta di voti segreti. Il carattere riservato di questi voti racconta semplicemente il desiderio di ogni gesuita: quello di cercare di vivere una vita più umile possibile, lontano dalla ricerca del potere e sempre più centrata nella sequela di Cristo povero, umile e casto.
L’autorità più alta nella Compagnia di Gesù è conosciuta con il nome di Generale. Un titolo che ha creato spesso confusione, perché è un termine più legato all’ambiente militare che a quello degli ordini religiosi, e ha contribuito a creare l’immagine della Compagnia come milizia. In realtà il titolo per esteso è quello di Preposito Generale della Compagnia di Gesù. L’aggettivo “generale” non ha niente a che fare con i gradi militari, ma indica piuttosto l’estensione della sua carica: si vuole semplicemente sottolineare che il gesuita eletto a questa carica dalla Congregazione Generale ha autorità su tutti i gesuiti sparsi nel mondo.
“Papa nero” è l’appellativo con cui spesso viene chiamato il superiore generale dei gesuiti. Il motivo sta nel fatto che la sua elezione è a vita come quella del Papa (e non a scadenza, a differenza di quanto avviene per gli altri ordini religiosi) e perché l’abito tradizionale dei gesuiti era la tonaca nera. Dicendo “Papa nero” si vuole per allusione contrapporlo al “Papa Bianco”, ovvero al Sommo Pontefice.
Non esiste un ramo femminile della Compagnia di Gesù. C’è stato un tentativo, già ai tempi di Ignazio, di creare la parte femminile ma senza buon esito. Questa carenza in realtà si è rivelata provvidenziale nel corso della storia. Attualmente infatti esistono molti istituti religiosi femminili che si ispirano alla spiritualità ignaziana e hanno assunto le nostre costituzioni come modello per il loro ordinamento interno.
La letteratura antigesuitica ha diffuso l’immagine di gesuita come falso e ipocrita, facendo leva sul fatto che i nostri missionari facevano di tutto per ingraziarsi il favore dei o degli imperatori. Il loro fine era quello di sfruttare il potere per evangelizzare, in accordo con il principio (oggi discutibile) del cuius regio eius religio. La letteratura antigesuitica stravolge questa intenzionalità rovesciando i termini e creando un luogo comune ad effetto: i gesuiti sono persone senza scrupoli che usano l’evangelizzazione per arrivare al potere.
La letteratura antigesuitica si sviluppa soprattutto a partire dal XVII secolo. Nei primi cent’anni di vita la Compagnia di Gesù ha vissuto una forte espansione numerica e ha riscosso successo e favore tra la gente. Inoltre i gesuiti acquistavano un’importanza sempre maggiore nella vita ecclesiale e politica dell’Europa cattolica. Questo generò un eccesso d’orgoglio in alcuni gesuiti, e suscitò ostilità e invidia in chi non li vedeva di buon occhio.
Fu probabilmente questo il terreno emotivo che alimentò una polemica di origine teologico-pastorale. I gesuiti avevano insistito nell’esercizio dei loro ministeri soprattutto sull’amore di Dio per i peccatori e l’abbondanza della sua grazia per tutti. Invitavano perciò i fedeli a ricorrere con frequenza alla Comunione, come mezzo per lasciarsi trasformare dalla grazia di Dio. Quest’approccio pastorale generò come reazione il cosiddetto “movimento di Port-Royal” (giansenismo). Gli aderenti a questo movimento insistevano soprattutto sulla necessità di un rigore ascetico per ottenere la salvezza. Per loro l’accesso alla Comunione doveva essere raro e condizionato a una preparazione scrupolosa. La polemica tra gesuiti e giansenisti si infuocò, e per questi ultimi fu facile screditare gli avversari accusandoli di lassismo. I giansenisti ebbero la fortuna di avere tra loro una delle penne più fini del secolo, Blaise Pascal, le cui pagine polemiche (“Le Provinciali”) contro i gesuiti ebbero un’influenza notevole nella storia della letteratura che seguì, creando il luogo comune del gesuita lassista e ipocrita, pronto a scendere a compromessi temperando il rigore morale per compiacere i potenti.
Ignazio non ha conferito alla Compagnia di Gesù un ordine militare quanto a disciplina e gerarchia e neppure per quanto riguarda l’aggressività dell’azione. Ignazio, uomo del suo tempo, era animato da un ideale cavalleresco. Ha trasmesso alla Compagnia di Gesù la passione per un servizio disinteressato e di alto profilo per una nobile causa. Traccia di questo modo di pensare lo si ritrova nella meditazione della chiamata del re temporale della seconda settimana degli Esercizi [91] cui fa seguito la chiamata del re eterno [95]. Da che cosa deriva allora questa credenza? Dal fatto che gli Esercizi Spirituali usano la metafora del combattimento spirituale per indicare la lotta cui il cuore dell’uomo è sottoposto ad opera delle diverse voci che si agitano dentro di lui e lo attirano in direzioni opposte. La terminologia non è originale di Ignazio: anche i padri del deserto utilizzavano lo stesso linguaggio, così come pure S. Paolo nelle sue lettere. Ad esempio in Ef 6,10-13: “Rivestitevi della completa armatura di Dio, onde possiate star saldi contro le insidie del diavolo; poiché il combattimento nostro non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono ne’ luoghi celesti. Perciò, prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio, e dopo aver compiuto tutto il dover vostro, restare in piedi”.
Ignazio di Loyola, il fondatore
“Chi vorrà riformare il mondo cominci da se stesso”