Formazione e vita alla scuola di nostra Signora dell’attesa
L’annuale incontro EJIF – European Jesuits in Formation – si è svolto quest’anno in Libano. La testimonianza di uno scolastico della provincia EuroMediterranea
Il tema centrale trae ispirazione dal titolo del Decreto n. 1 della 36ma Congregazione Generale: “Testimoni di amicizia e riconciliazione”. 25 giovani gesuiti, provenienti da tutta Europa, hanno vissuto un’esperienza di immersione nei campi dei rifugiati siriani e partecipato a conferenze di approfondimento sulla situazione politico-sociale-religiosa in Medioriente e Libano. La provincia EuroMediterranea ha inviato tre delegati: Arnold Mugliett, Andrew Camilleri e Giuseppe La Mela.
Di seguito viene riportata una testimonianza sull’esperienza vissuta da uno degli scolastici.
Secondo la tradizione, quando Gesù si recò a predicare a Tiro e Sidone (cfr Mc 7,24) sua madre Maria andò con lui. Non potendo entrare in terra pagana, essendo una donna ebrea, rimase ad attendere il figlio su una collina appena fuori Sidone, trovando riparo in una grotta che è poi diventata il santuario di Nostra Signora dell’attesa.
Solitamente non amo questo tipo di santuari, è come se la mia parte razionale mi dicesse “non c’è la minima prova che qualcosa di simile sia veramente accaduto, non crederai mica a certe storie?”. E poi questi santuari hanno un non so che di kitsch a volte che mi porta a ignorarli.
Eppure, non appena mi sono trovato di fronte alla statua di Nostra Signora dell’attesa, ho sentito una forte commozione e il mio cuore si è riempito di un’inspiegabile senso di tenerezza.
Mi trovavo Libano da 10 giorni e questa terra mi aveva colpito come un luogo in cui molte persone vivono in attesa.
Ho visitato molti campi profughi, ho assistito a tanta sofferenza, a tanta ingiustizia. Molti siriani qui si ritrovano in attesa, circa un milione e mezzo. Sono stati costretti ad abbandonare il loro paese e moltissimi di loro hanno perso la casa, il marito o la moglie, i figli. E sono qui, in attesa. Attendono che le cose vadano meglio.
C’è chi aspetta un food basket da qualche ONG, chi uno small grant, una piccola sovvenzione, per aprire un negozio nel campo e sopravvivere. Molti aspettano di tornare in Siria.
Sono arrivati in Libano fuggendo dalla follia di una guerra che divora tutto, hanno occupato alcune terre, costruito una tenda e poi un campo. I proprietari dei terreni hanno poi iniziato a chiedere l’affitto e, sapendo che molte ONG avrebbero aiutato i rifugiati a coprire le spese, hanno aumentato i prezzi fino a 600 – 800 dollari al mese. Molti rifugiati cercano lavoro e vengono assunti come braccianti nelle aziende agricole o come muratori in un cantiere ma molte volte, nonostante il loro duro lavoro, non vengono pagati. Lo stesso accade con molte donne siriane che fanno le pulizie nelle case dei libanesi. Alcuni di loro hanno perso ogni speranza.
Durante una delle nostre visite, abbiamo chiesto a una signora siriana se avesse un sogno o qualche speranza per il futuro. La sua risposta è stata: “No, non sogno più. Da quando mio marito è morto in Siria cerco solo di sopravvivere, per i miei figli. Ma non ho più sogni “.
La questione dei rifugiati in Libano è particolarmente complessa e ha una storia molto lunga. Il campo di Shatila, appena fuori Beirut, è stato creato nel 1948 per ospitare i profughi palestinesi arrivati in massa in Libano. Si estende per circa un chilometro quadrato e oggi ospita un numero non ben definito di rifugiati, probabilmente più di 50.000 tra palestinesi e siriani. Al nostro arrivo i nostri occhi si sono posati su un labirinto di stradine coperte di fango, sovrastate da un impressionante groviglio di cavi elettrici che si dispiega per tutto il campo e che penzolava a pochi millimetri dalle nostre teste. “Attenti a non toccare i cavi” avvisa l’operatore della ONG che ci ospita “molti sono scoperti e qualcuno c’è rimasto secco”. Abbiamo incontrato molte donne, visitato le loro case e parlato con loro. Ci hanno accolto con gentilezza e ci hanno raccontato un po’ della loro vita nel campo. “Sto chiedendo una piccola sovvenzione a una ONG per aprire un salone di bellezza”; “Ho perso i miei sei figli e mio marito in Siria e non so cosa fare”, “Voglio aprire un piccolo negozio per guadagnare qualcosa per i miei figli “. I loro occhi erano velati di tristezza, ma c’era anche determinazione e coraggio.
Mi sono sentito impotente davanti a tanta sofferenza e dolore. Volevo aiutarli ma non sapevo come. Ero pervaso da uno strano mix di senso di colpa occidentale, buona volontà e una genuina fame e sete di giustizia.
Poi ho incontrato una giovane ragazza palestinese di 14 anni, bellissima e molto dolce. Estremamente sveglia, con un ottimo inglese mi ha raccontato quanto le piaccia studiare matematica nella scuola che frequenta a Beirut, quanto ami giocare a calcio, e quanto Cristiano Ronaldo sia ovviamente molto più bravo di Leo Messi. Scrive poesie e sogna di pubblicare un libro. Il padre attualmente vive in Germania, ma lei e la madre non possono ancora raggiungerlo perché non hanno i documenti richiesti.
Era piena di energia e di vita, piena di speranza per il futuro nonostante vivesse in quell’inferno. Non vuole arrendersi.
Forse è questo quello che ho sentito davanti a nostra Signora dell’attesa. Penso che la statua catturi perfettamente questo senso di desiderio e speranza. Maria è seduta su una roccia, la mano destra appoggiata sul ginocchio, la sinistra sulla roccia. Il suo corpo è attraversato da una tensione che sembra farla protendere in avanti ei suoi occhi scrutano inquieti l’orizzonte. Sembra che sia pronta a saltare in piedi e correre verso Gesù non appena lo intravede da lontano.
E ho sentito una pace così grande accanto a lei. Il tipo di pace che ti riempie di speranza e ti rigenera. Una pace che non intorpidisce ma inquieta, che ispira all’azione. Il tipo di pace che viene quando sai che suo figlio sta tornando.
Tutte le storie che ho sentito, tutti i volti che ho visto, tutto il dolore e tutta la speranza delle persone che ho incontrato rimarranno con me per sempre, influenzeranno la mia vita, i miei studi, le mie relazioni, la mia preghiera, il mio rapporto con Dio.
Qualcosa è cambiato per sempre nel mio cuore ma, come Maria, non so esattamente cosa accadrà, cosa farò. Quello che so è che quando mi sentirò perso e insicuro, potrò tornare lì e aspettare in silenzio con lei e con i rifugiati che ho incontrato, scrutando l’orizzonte.
Giuseppe La Mela SJ