La “Pandemia Blues” di padre Gilger
Su Civiltà Cattolica il diario della quarentena a Milano di un giovane gesuita americano. “Per me – gesuita, prete –, è stata una penitenza quaresimale particolarmente adatta. È come se Milano, in quarantena, mi avesse chiesto di rinunciare alla versione della nostra risposta americana per timore che l’avrei messa in pratica qui: lo sforzo incessante di controllare, dominare, definire, e quindi sancire ciò che è realmente reale e veramente vero. E così essere sicuro”.
Atterrato a Milano appena entrato in vigore il decreto sull’isolamento domiciliare a causa del Covid-19, Patrick Gilger, gesuita statunitense, si è reso conto che il suo progetto di completare il suo lavoro di tesi di dottorato era impossibile. Ma sebbene non abbia potuto conoscere Milano nella sua vivacità e raffinatezza, ha potuto comunque riceverne un insegnamento. L’Italia stessa – con la sua gente e la sua storia, nel modo in cui la città si muove e le persone interagiscono – è diventata la sua istruttrice, chiedendogli di disimparare la sua risposta americana alle crisi e insegnandogliene un’altra: una risposta appresa nel corso dei secoli. L’Autore è collaboratore della rivista America e dottorando presso The New School for Social Research di New York.
Dopo il tramonto, ogni sera, gli adolescenti si radunano nella piazza sotto le finestre della mia camera al quinto piano. Non sono chiassosi, no: sono solo giovani. E da queste parti, a quanto pare, significa che parlano e cantano; quindi bevono, e riprendono a cantare. Poi si siedono e ridono e cantano nell’oscurità sotto la mia stanza. Questo spiega perché non riesco a dormire. Ma ho bisogno di sonno, perché sono malato.
Due settimane dopo, non sono più malato e non ho problemi per dormire. Presumo che da qualche parte quegli adolescenti staranno ancora ridendo, cantando e bevendo, ma in questo periodo di quarantena non vengono più sotto le mie finestre. Mi mancano.
In una giornata limpida la vista è spettacolosa. A nord sono visibili le cime delle Alpi innevate. A sud, se mi sporgo abbastanza, la Madonnina dorata corona il campanile del Duomo; e, stretto alle sue gonne appena fuori vista, c’è il famoso Teatro alla Scala.
Milano. In un giorno normale un visitatore la troverebbe signorile e vivace, storica e moderna, affaccendata e affollata; una città sempre più prossima all’ideale platonico dell’Europa cosmopolita. Ma molto è cambiato.
Poiché sono arrivato qui solo all’inizio di marzo, integro e sano, non saprei valutare quanto. La notizia che il coronavirus si diffondeva in Lombardia è comparsa sui radar americani solo il giorno prima che lasciassi New York. E, pur con un preavviso così breve, il mio volo notturno sull’Atlantico era quasi vuoto. Senza turbarmi, ho reclinato il sedile e mi sono addormentato.
Atterrando a Milano Malpensa l’indomani mattina, dopo una rapida scansione della temperatura da parte di una coppia di operatori sanitari mascherati, oltrepassai la dogana quasi senza scambiare una parola. Presi un treno, e poco più tardi ero sulla soglia dell’edificio in cui avrei dovuto alloggiare: l’Istituto Leone XIII, una scuola dei gesuiti a nord-ovest del centro di Milano.