Ripensare la povertà: lettera ai gesuiti sulla sequela di Cristo povero e umile
Il padre Arturo Sosa, come Superiore Generale, ha scritto a tutti i suoi confratelli gesuiti invitandoli a un cammino personale e comunitario sul voto di povertà. Nella lettera, intitolata “Il nostro voto di povertà alla sequela di Gesù povero e umile” padre Sosa indica alcune tappe del cammino.
Tra le altre cose scrive: «”farsi poveri” come dimensione della sequela di Gesù Cristo significa liberarsi da ciò che impedisce di rendersi disponibili alla guida dello Spirito Santo. “Farsi poveri” è un passo per porre la propria fiducia in Dio e in Lui solo. È la povertà come spogliazione e distacco che libera dalla tendenza a possedere ricchezza come fondamento della propria sicurezza. Chi “diventa ricco” si convince di poter così controllare la propria vita e di poterla assicurare contro ogni tipo di rischio. La via della povertà evangelica, invece, ci porta a vivere in modo aperto, ci mette nelle mani degli altri, nell’incertezza da cui poniamo la nostra speranza nel Signore».
«Scegliendo di servire sotto la bandiera di Gesù, la Compagnia si impegna con altri in una missione di riconciliazione e di giustizia che ci porta ad accompagnare gli emarginati di questo mondo – la maggior parte dei quali sono giovani – nella loro lotta per superare quella povertà che non è volontà di Dio, ma conseguenza di ingiustizia strutturale nelle relazioni economiche, sociali e politiche del mondo, che mantiene la maggior parte dell’umanità in condizioni di vita disumane e minaccia l’equilibrio dell’ambiente naturale. Facciamo voto di povertà per acquisire la sensibilità necessaria per avvicinarci a coloro che soffrono le conseguenze disumane di quella povertà, per accompagnare la loro vita dalla prospettiva del Vangelo e per unirci ai loro sforzi per eradicare quella povertà, sforzi che includono, oggi più che mai, l’impegno a prendersi cura del pianeta e del suo ambiente».
Intervista a padre Sosa
a cura del servizio informazione della Curia Generalizia
Padre Generale, il contesto dell’Anno Ignaziano colora la riflessione sulla povertà religiosa a cui lei chiama i gesuiti?
Il punto di partenza di questo cammino che propongo è precedente all’Anno Ignaziano. La 36ª Congregazione Generale ha chiesto al Generale di rivedere gli Statuti sulla Povertà e l’Istruzione sull’Amministrazione dei Beni. Ho istituito un comitato che se ne occupi. Ma la preoccupazione di come vivere il voto di povertà, non solo a livello personale ma a livello della stessa Compagnia, è molto antica. Propongo quindi di non fare di questa riflessione una questione di regole, ma di andare alla sostanza delle cose.
Un legame con l’Anno Ignaziano che commemora la conversione di Ignazio? Dovremmo ricordare che la prima cosa che Ignazio fece dopo aver preso la decisione di cambiare vita è stata di farsi povero, radicalmente. Simbolicamente, ha dato via i suoi vestiti e ha deposto la spada. Poi ha fatto un cammino molto lungo per arrivare, decenni dopo, a una definizione di ciò che sarebbe stata la povertà religiosa nella Compagnia.
Infatti, il tema della povertà è una dimensione fondamentale della vita cristiana perché Gesù si è fatto povero e umile. Il punto di partenza per la redenzione del genere umano è Gesù che si fa povero. Così, essere un cristiano alla sequela di Gesù, ma ancor più fare un voto di povertà per i religiosi, è farsi poveri per avvicinarsi allo stile di vita di Gesù.
I religiosi e le religiose di tutte le congregazioni fanno voto di povertà. C’è una maniera specificamente gesuita di viverlo?
Certo, dato che la Compagnia di Gesù è stata un Ordine molto particolare fin dalle sue origini. Fino a quel momento, la povertà era legata alla vita monastica. I monaci vivevano questo voto mettendo in comune le loro risorse in un monastero. La Compagnia di Gesù, invece, è un Ordine apostolico, composto da membri sparsi secondo le necessità della Chiesa. Lo stile di vita dei gesuiti dev’essere povero e apostolico allo stesso tempo. Infatti, sant’Ignazio dice che i gesuiti dovrebbero avere uno stile di vita come quello “di Gesù e degli apostoli”. C’è una dimensione missionaria in questo, di inserimento nel mondo, che influenza il modo di vivere il voto di povertà.
È complesso? Sì, e quest’obiettivo di vivere la povertà apostolica è sempre stato fonte di tensioni. Non avere nulla, ma allo stesso tempo poter essere efficaci nell’apostolato, il quale ha bisogno di risorse molto concrete.
Per esempio, in quale modo i gesuiti collegano il loro voto di povertà alla loro lotta contro la povertà per un mondo più giusto?
Bisogna saper mettere un aggettivo essenziale alla povertà dei gesuiti. È una povertà evangelica. La mia lettera ai miei confratelli non è una riflessione sulla povertà sociologica, ma sul voto di povertà. La povertà non è un bene in sé. Lo ha detto anche San Paolo: “Gesù si è fatto povero per arricchirci”. Gesù non è povero perché gli mancava l’essenziale; si è fatto povero. La povertà è il risultato del dono di se stesso, della generosità, dell’amore per gli altri. Questo è il voto di povertà: rinunciare a se stessi per seguire la dinamica aperta da Gesù di donarsi generosamente, interamente, agli altri.
La povertà sociale è frutto dell’ingiustizia e non della volontà di Dio. Dio non vuole questa povertà. La povertà evangelica, invece, arricchisce perché dà vita. Offre la libertà interiore, permette il distacco dal possesso e promuove la sensibilità verso coloro che soffrono la povertà a causa dell’ingiustizia. Le immagini del Regno di Dio sono senza povertà; presentano l’abbondanza dei doni di Dio.
Papa Francesco, durante il suo incontro con i membri della 36ª Congregazione Generale, ha detto che la povertà religiosa è una “madre” e un “bastione”. Può commentare?
Non è stato lui a fare quest’affermazione. Egli ricordava ai gesuiti che queste sono immagini che Ignazio ha usato nelle Costituzioni. Dobbiamo ricordare che Ignazio ha riflettuto a lungo su questa domanda e che ha anche deliberato in proposito con i suoi primi compagni. Queste immagini sono il frutto del suo discernimento. Cos’è una madre? È colei che dà la vita, che la nutre, che se ne prende cura. La povertà, dunque, è come una madre che dà vita all’impegno religioso e lo nutre. Per quanto riguarda il bastione, serve per preservare la vita perché gli attacchi, per esempio dalla ricchezza, possono avvenire in qualsiasi momento.
Questo ci riporta all’inizio della nostra conversazione sull’importanza degli statuti e delle norme. Se vuole vivere il proprio obiettivo di povertà-umiltà, il gesuita deve avere dei criteri, delle norme che gli serviranno da bastione. Concretamente, questo ha significato che, non volendo che i suoi membri posseggano qualcosa personalmente, la Compagnia deve prevedere modi per sostenere coloro che vengono formati per l’apostolato, così come i suoi malati.
Nella sua lettera, chiede ad ogni gesuita e ad ogni comunità di fare una revisione della maniera in cui vivono il voto di povertà. Cosa sta facendo personalmente a questo riguardo?
Prima di tutto, come ogni gesuita, devo pregare. Ho insistito nella mia lettera che il primo passo è rendere grazie per i benefici che ci ha portato la povertà evangelica, quest’eredità dello stesso Gesù. Ed è quanto farò anch’io. Poi, come Superiore Generale, ad ottobre-novembre darò un ritiro di un giorno a tutti i Provinciali del mondo, regione per regione, invitandoli a promuovere il processo nelle loro comunità. E poi, alla fine del 2022, darò un altro ritiro ai Provinciali dove potremo condividere i frutti delle nostre riflessioni e delle nostre preghiere. Non per pubblicare un documento, ma per crescere nella maniera di vivere il nostro voto di povertà.