A ‘Soul’ padre Fabrizio Valletti sul ’68 cattolico
Su Tv2000 sabato 12 maggio alle 12.50 e alle 20.45 padre Fabrizio Valletti è ospite di Monica Mondo.
Fabrizio Valletti secondo la scheda di presentazione di TV2000, con alcune dichiarazioni tratte dalla trasmissione:
“È un gesuita, da sempre alla ricerca di realtà difficili e precarie, lui che è nato da una famiglia borghese. Padre Fabrizio Valletti è cresciuto nel primo dopoguerra, con un padre non credente, mazziniano, e cinque sorelle, le prime esperienze negli scout e la scarsa voglia di studiare. Allievo del Tasso a Roma e poi la scelta universitaria con l’iscrizione ad Architettura, materia lontana dalla carriera di medico per evitare l’appellativo di “figlio di papà” con il mestiere già in tasca. Inizia qui l’interesse politico con la fondazione di “Iniziativa Politica” durante gli studi, in un momento in cui era preponderante la difficoltà di coniugare Chiesa e mondo sociale. “O il Vangelo o tutto il resto”, questa la spinta che poi ha guidato padre Valletti a diventare un religioso, e in seguito gesuita. Un’esperienza all’estero fra Londra e Parigi, il ritorno in patria, a Livorno la consapevolezza di essere in grado di insegnare, poi gli studi a Pisa con Luigi Chiarini. Girovago, finisce a Firenze dove frequenta don Milani e fa la conoscenza di La Pira, Balducci e Fioretta Mazzei, il ritorno a Roma per gli studi in Teologia, negli anni del ’68, con l’occupazione della Basilica di San Pietro. E poi di nuovo a Firenze con il ponte fra il Mugello e la città, Follonica con la comunità operaia, Bologna e i contrasti con Comunione e Liberazione, fino a Napoli a Scampia. Padre Valletti ha vissuto molte vite, assistente scout, assistente alle carceri di Poggioreale e Secondigliano, presidente dell’Istituto Pontano di Napoli e responsabile del Centro Hurtado. Ed è proprio in quest’ultimo a Scampia, in una delle realtà italiane più complesse, che padre Valletti compie quella che è una esperienza culturale ma soprattutto sociale, con un unico obiettivo: avvicinare la città alle periferie”.
“Nel ’68 c’era molta rabbia e poi c’era una rilevo di tipo ideologico che appiattiva i problemi, non entravamo nel merito delle varie realtà che componevano la società. Si era sviluppato questo odio di classe che per l’Italia era stata una sconfitta negli anni precedenti, quindi credo che questo era il motivo per cui con molti non si ragionava, si lottava e basta”.
“Quando iniziai a frequentare la Gregoriana padre Fuchs aveva il desiderio che gli studenti si potessero esprimere, quindi facemmo un movimento con tutti gli esponenti dei collegi pontifici che chiamammo “18 marzo”, e iniziarono queste attività per incoraggiare i docenti di teologia ad avere un’apertura sui problemi sociali e pastorali. In una di queste assemblee che presiedevo, venne promosso un sit in dagli studenti latino americani un po’ per protesta sulle rette troppo alte, ma soprattutto’ per richiamare l’attenzione sui problemi che come preti e studenti vivevano nei loro paesi. Non promossi io il sit in. Il mio padre rettore così mi difese davanti agli altri docenti perché non avevo intenzione di esasperare gli animi”.
“Fu detto che occupammo San Pietro, ma l’intenzione era di pregare sulla tomba di San Pietro. Fu un’iniziativa che unì molte realtà su Roma che non potevano molto esprimersi. I miei superiori pensarono che dovevo essere espulso dalla Compagnia, però c’era qualche mio superiore che mi voleva molto bene e pensava che non avevo nessuna intenzione sessantottina violenta. E poi Paolo VI, che amavo tanto, mi ha ordinato prete. Lo considero ancora una mia guida importante a livello ecclesiale e spirituale. Erano gli anni dell’adempimento del Concilio che Paolo VI aveva chiuso e cercava di incoraggiare con le prime esperienze sinodali”.
“Non si può partire dalla comunicazione di un contenuto culturale senza tener conto di chi lo accoglie. Il problema educativo è parallelo a quelli politico, sociale, economico. Bisogna partire dalle persone che hai davanti. Il miglior educatore è quello che inizia nell’ascoltare, ascoltare la sofferenza, ascoltare da dove si proviene, la storie personali. Fare educazione vuol dire far crescere ciò che ognuno porta in sé, anche se proviene da situazioni di disagio, povertà e sofferenza. La svolta educativa necessita di presenza”.