Bologna. Rupnik al Poggeschi: “Il pane, il vino e il segreto dell’arte”
Cosa nasconde un’opera d’arte? Quale mente e quale progetto ci sono a monte? Mark Ivan Rupnik, gesuita, artista e teologo, direttore dell’Atelier dell’arte spirituale del Centro Aletti, mosaicista autore di opere note in tutta Europa, non ha dubbi: “C’è un grande studio preliminare dietro, ci deve essere alle spalle una teologia, come una genesi precisa della creazione”. Trovatosi a Bologna con la sua equipe per la realizzazione della rinnovata cappella del Corpus Domini, inaugurata lo scorso 28 febbraio, il padre gesuita è passato anche dal Centro Poggeschi per incontrare i ragazzi della Rete Loyola.
Molti artisti procedono per tentativi affidandosi al bozzetto, ma per Rupnik “non esistono i bozzetti, perché nella vita non si procede per bozzetti”. Vita è arte e arte è vita, questo il motto da cui l’artista sloveno comincia a comporre. Ma non solo. “All’atelier siamo in 12, di 8 paesi diversi e religioni diverse. Le nostre opere sono abitate da Dio perché sono fatte in comunione”. Lavoro di gruppo e coesione, dunque, gli altri punti di forza. Rupnik, l’artista del colore, passa così dalle grandi aule a cui è abituato a fare conferenze, al salone del Centro Poggeschi. E ne esce soddisfatto. L’intento era “assaporare un clima d’intimità stando con i giovani”. Esperimento riuscito.
Più volte ha parlato di una sua ricerca dell’essenziale dell’arte nella forma. C’è questa ricerca anche nei colori?
“Si, infatti col tempo ho scoperto il colore sempre più nella dimensione spirituale e teologica. All’inizio, essendo nato come artista in queste correnti espressioniste informali, ho utilizzato i colori come espressione di me stesso. Pian piano ho sperimentato che i cristiani hanno battezzato i colori in un modo veramente significativo. Allora ho capito che per far vedere la forza del rosso lo devo mettere in un parete di 10 mq in 50cmq e non tre quarti di parete; non è la forza del colore come quantità, ma come trovare il suo posto giusto nell’insieme dei colori. Vuol dire che anche lì c’è in gioco una relazionalità. I colori sfumati invece non li ho mai amati molto, perché il colore essenziale dice molto di più proprio perché non ha interventi sopra. Vedi, secondo te i cristiani perché hanno scelto il rosso come colore di Dio? Perché ricorda il sangue, il sangue è il luogo dove abita la vita secondo la legge di Mosè, e la vita appartiene a Dio. Dunque il sangue ricorda Dio. Blu è il cielo; l’uomo è l’unico essere che guarda il cielo, dunque il blu è l’unico colore che determina l’uomo. Nel Rinascimento si rovescia questa prospettiva, si comincia a perdere la fede e il rosso ricorda il sangue, dunque l’uomo. Siamo andati avanti ed è diventato simbolo di morte. Oggi la maggior parte delle persone vede il rosso come colore di violenza, incidenti. I cristiani hanno colto queste cose nel senso religioso, in cui ci sono le cose essenziali, poi le cose essenziali ti creano l’arcobaleno di migliaia di sfumature. E’ l’essenziale che devi comporre Se non hai l’essenziale ti perdi in fumo”.
Nella bivalenza dei colori c’è anche un riferimento alla lotta degli spiriti?
“Non ci ho pensato in realtà, mi sono rifatto ad altro,ma potrebbe esserci”.
Tra i gruppi di servizio della Rete Loyola c’è Pietre Vive, in cui i ragazzi cercano di evangelizzare attraverso l’arte. Può dare loro dei consigli?
“Non puoi spiegare il miele se prima non l’hai mangiato. Non puoi evangelizzare se non fai vedere la vita. Rifacciamoci alla tradizione. Che significa tradizione? Cristo dice: pregate così, e fa una preghiera. Noi cosa facciamo? Prendiamo il testo del Padre Nostro e vogliamo impararlo, ma il testo non si impara semplicemente leggendolo, perché qualcuno prima ti deve far entrare in questa relazione tra te e il Padre. Questa è la tradizione: ciò che ti fa entrare in profondità e ti fa vedere in principio come il Figlio si rivolge al Padre. Se il Figlio non si rivolge al Padre io non posso sapere come si prega, perché la preghiera è un’esperienza spontanea. E’ lo stesso per l’arte. Se parli di un rilievo romanico in questo modo la gente tornerà, il marito lo andrà a dire alla moglie e ritornerà con la famiglia là, perché là qualcosa è successo”.
Quindi la pratica non può trascendere dalla teoria e insieme non possono trascendere dall’esperienza?
“Se si tratta delle chiese l’esperienza è necessariamente esperienza ecclesiale, dunque della vita di Cristo.
L’arte diventa così un luogo d’incontro, un mezzo per denudare l’anima, perché “Cristo non s’incontra da vivi ma da morti, – continua Rupnik- nel Battesimo”. E l’artista non ha potere, “la creatività ce l’ha solo la Chiesa perché per essere creativo devi partecipare alla creazione del Signore, devi essere in un’onda che fa qualcosa per la comunità”.
Il segreto di un’opera d’arte dunque, per quanto magniloquente possa sembrare, è l’essenzialità: “l’arte è un sacramento, quello dell’Eucarestia. Cosa mettiamo sulla tavola? Il pane e il vino, niente di più”.
Ilaria de Lillo