Francesco ai gesuiti: “La Chiesa di oggi ha bisogno di discernimento”
I rapporti tra Francesco e la Compagnia? “La disponibilità è totale”, dice il Papa nel lungo colloquio con i gesuiti riportato da Civiltà Cattolica. “Ma nessuno può accusare il pontificato attuale di «gesuitismo». Lo dico, e credo di essere sincero nel dirlo. Si tratta di una collaborazione ecclesiale, nello spirito ecclesiale. È un sentire con la Chiesa e nella Chiesa, nel rispetto del carisma della Compagnia”. Di seguito i pezzi della conversazione in Cile e Perù che toccano la Compagnia
«Francesco, in diverse occasioni e nella “Evangelii gaudium” ci hai messo in guardia dal pericolo della mondanità. In quali aspetti della nostra vita di gesuiti dovremmo stare attenti a non cadere in questa tentazione della mondanità?».
L’allarme sulla mondanità me l’ha fatto scattare l’ultimo capitolo
delle Meditazioni sulla Chiesa di Henri de Lubac. Cita un benedettino,
dom Anscar Vonier, che parla della mondanità come
del peggior male che possa capitare alla Chiesa. Questa cosa mi ha
risvegliato il desiderio di capire che cosa sia la mondanità. Certo,
sant’Ignazio ne parla negli Esercizi, nel terzo esercizio della prima
settimana, là dove chiede di scoprire gli inganni del mondo. Il
tema della mondanità è nella nostra spiritualità di gesuiti. Le tre
grazie che chiediamo in quella meditazione sono il pentimento dei
peccati, cioè il dolore dei peccati, la vergogna e la conoscenza del
mondo, del demonio e delle sue cose. Pertanto, nella nostra spiritualità
la mondanità è da tenere presente e considerare come una
tentazione.
Sarebbe superficiale affermare che la mondanità è condurre una
vita troppo rilassata e frivola. Queste sono solamente conseguenze.
Mondanità è usare i criteri del mondo e seguire i criteri del mondo
e scegliere secondo i criteri del mondo. Significa fare discernimento
e preferire i criteri del mondo. Pertanto, quello che dobbiamo
chiederci è quali sono questi criteri del mondo. E questo è proprio
ciò che sant’Ignazio fa chiedere in quel terzo esercizio. E fa fare tre
richieste: al Padre, al Signore e alla Vergine, perché ci aiutino a scoprire
questi criteri. Ciascuno, dunque, deve mettersi a cercare che cosa nella propria vita è mondano.
Non basta una risposta semplice e generale. In che cosa sono mondano io? Questa è la vera domanda.
Non basta dire che cos’è la mondanità in generale. Per esempio,
non so, un professore di teologia può rendersi mondano se va alla
ricerca dell’ultima pensata per essere sempre alla moda: questo è
mondano. Ma gli esempi possono essere mille. E bisogna chiedere
al Signore di non essere ingannati cercando di discernere quale sia
la propria mondanità.
«Santo Padre, lei è stato un uomo di riforme. In quali riforme, a parte quella della Curia e della Chiesa, noi come gesuiti possiamo appoggiarla meglio?».
Credo che una delle cose di cui la Chiesa oggi ha più bisogno,
e questa cosa è molto chiara nelle prospettive e negli obiettivi pastorali
dell’Amoris laetitia, è il discernimento. Noi siamo abituati
al «si può o non si può». La morale usata nell’Amoris laetitia è la
più classica morale tomista, quella di san Tommaso, non del tomismo
decadente come quello che alcuni hanno studiato. Ho ricevuto
anch’io, nella mia formazione, la maniera del pensare «si può o non
si può», «fin qui si può, fin qui non si può». Non so se ti ricordi [e
qui il Papa guarda uno dei presenti] di quel gesuita colombiano che
venne a insegnarci morale al «Collegio Massimo»; quando si venne
a parlare del sesto comandamento, uno si azzardò a fare la domanda:
«I fidanzati possono baciarsi?». Se potevano baciarsi! Capite? E lui
disse: «Sì, che lo possono! Non c’è problema! Basta però che mettano
in mezzo un fazzoletto». Questa è una forma mentis del fare
teologia in generale. Una forma mentis basata sul limite. E ce ne
portiamo addosso le conseguenze.
Se date un’occhiata al panorama delle reazioni suscitate dall’Amoris
laetitia, vedrete che le critiche più forti fatte contro l’Esortazione
sono sull’ottavo capitolo: un divorziato «può o non può fare la Comunione?».
E invece l’Amoris laetitia va in una direzione completamente
diversa, non entra in queste distinzioni e pone il problema del discernimento.
Che era già alla base della morale tomista classica, grande,
vera. Allora il contributo che vorrei dalla Compagnia è di aiutare la
Chiesa a crescere nel discernimento. Oggi la Chiesa ha bisogno di
crescere nel discernimento. E a noi il Signore ha dato questa grazia di
conversazioni del papa con i gesuiti del cile e del perù
famiglia di discernere. Non so se lo sapete, ma è una cosa che ho già
detto in altre riunioni come questa con gesuiti: alla fine del generalato
di p. Ledóchowski, l’opera culmine della spiritualità della Compagnia
è stata l’Epitome. In essa quello che voi dovevate fare era tutto
regolamentato, in un enorme miscuglio tra la Formula dell’Istituto, le
Costituzioni e le regole. C’erano perfino le regole del cuoco. Ed era
tutto mescolato, senza gerarchizzazione. P. Ledóchowski era molto
amico dell’abate generale dei benedettini, e una volta che andò a fargli
visita, gli portò quello scritto. Poco tempo dopo, l’abate lo cercò e gli
disse: «Padre generale, con questo lei ha ammazzato la Compagnia di
Gesù». E aveva ragione, perché l’Epitome toglieva qualsiasi capacità di
discernimento.
Poi è venuta la guerra. Il p. Janssens ha dovuto guidare la Compagnia
nel dopoguerra, e l’ha fatto bene, come poteva, perché non
era facile. E poi è venuta la grazia del generalato di p. Arrupe. Pedro
Arrupe con il Centro ignaziano di spiritualità, la rivista Christus e
l’impulso dato agli Esercizi spirituali ha rinnovato questa grazia di
famiglia che è il discernimento. Ha superato l’Epitome, è tornato
alla lezione dei padri, a Favre, a Ignazio. In questo va riconosciuto
il ruolo della rivista Christus a quel tempo. E poi anche il ruolo del
p. Luis González con il suo Centro di spiritualità: è andato in giro
per tutta la Compagnia a dare Esercizi spirituali. Andavano aprendo
le porte, rinfrescando questo aspetto che oggi vediamo che è
cresciuto molto nella Compagnia. Ti direi, ricordando questa storia
di famiglia, che c’è stato un momento in cui avevamo perduto – o
non so se l’avessimo perduto, diciamo che non si usava molto – il
senso del discernimento. Oggi datelo – diamolo! – alla Chiesa, che
ne ha tanto bisogno.
«Una domanda sulla collaborazione: quale aiuto le sta dando la Compagnia durante il suo pontificato, in che modo c’è stata collaborazione, come sono stati i suoi rapporti con la Compagnia?».
Fin dal secondo giorno dopo l’elezione! P. Adolfo Nicolás è venuto
nella mia camera a Santa Marta… La collaborazione è cominciata
così. Venne a salutarmi, abitavo ancora nella stanzetta che
mi era toccata durante il Conclave, non quella che ho adesso, e là
abbiamo conversato. E i generali, entrambi, Adolfo e adesso Arturo,
entrambi hanno puntato molto su questo. Credo che su questo
punto… c’è qui p. Spadaro…
Spadaro: «Sono qua».
Eccolo nel loggione… Credo che lui sia stato testimone fin
dal primo momento di questa relazione con la Compagnia. La
disponibilità è totale. E poi con intelligenza, come per esempio
sulla dottrina della fede: davvero un grande appoggio. Ma nessuno
può accusare il pontificato attuale di «gesuitismo». Lo dico,
e credo di essere sincero nel dirlo. Si tratta di una collaborazione
ecclesiale, nello spirito ecclesiale. È un sentire con la Chiesa e
nella Chiesa, nel rispetto del carisma della Compagnia. E i documenti
dell’ultima Congregazione Generale non hanno avuto
bisogno dell’approvazione pontificia. Io non l’ho ritenuta affatto
necessaria, perché la Compagnia è adulta. E se fa uno sbaglio…
arriverà una lamentela e poi si vedrà. Credo sia questa la maniera
di collaborare.
Bene, vi ringrazio molto… e voglio dirvi però ancora una cosa
importantissima, una raccomandazione: il rendiconto di coscienza!
Per i gesuiti è una gemma, una grazia di famiglia… Per favore, non
trascuratelo!