Profughi ucraini: a Milano accolti dai gesuiti all’Istituto Leone XIII
Lo scoppio della guerra in Ucraina, il desiderio di rispondere all’emergenza. Così i gesuiti della comunità di Milano – San Fedele, Leone XIII e Villapizzone – hanno scelto di accogliere, individuando nell’Istituto Leone XIII il luogo più idoneo.
“L’edificio ha una larga superficie destinata a foresteria, una parte della quale poteva essere dedicata a questo tipo di ospitalità, dopo alcuni adeguamenti” racconta p. Francesco Cambiaso. “Si è trattato di preparare i locali: cucina, lavanderia e sala comune. Le camere avevano bisogno solo di minimi interventi”. Preziosa la sinergia con la Cooperativa Farsi Prossimo della Caritas Ambrosiana. Nel frattempo, era iniziata un’altra piccola esperienza di accoglienza al San Fedele. “Una signora ucraina con la figlia. Si trattava, come è avvenuto in quasi tutti i casi, di una persona che per vie traverse ci è stata presentata con la sua impellente necessità, e noi abbiamo ritenuto di non poterla rifiutare”.
Entrambe parlavano inglese. “Cosa rara tra i profughi ucraini: degli altri undici assistiti, poi ospitati al Leone XIII, solo una mamma e una figlia sapevano un po’ di italiano”. La differenza linguistica si è rivelata un ostacolo significativo. “Certo, lo smartphone e Google translator aiutano, ma per i profughi l’autonomia è ovviamente molto limitata dalla barriera linguistica e dal non parlare altre lingue se non slave”.
Al momento tredici in tutto le persone accolte, mamme con figli minorenni, e una coppia di anziani. Sono in arrivo altre otto persone presso il Centro Schuster, dove è stata adeguata la “palazzina”, un immobile dietro la chiesa al momento non utilizzato., accoglienza resa possibile grazie alla pronta risposta del Comitato direttivo, di una serie di volontari, dei gesuiti e la generosità di una banca milanese.
Non solo accoglienza ma capacità relazionale
“É bello vedere che se vogliamo siamo capaci di risolvere i problemi. Deludente constatare che siamo decisamente razzisti, e anche irrazionali. San Fedele peraltro ospita anche altri profughi” spiega Cambiaso. La risposta delle persone è stata forte e generosa. “Va associata una adeguata capacità relazionale: si tratta di situazioni particolari, segnate dal dolore”. Il tema del trauma emerge come centrale: ”si manifesta in molti modi, soprattutto con sintomi depressivi e – in maggioranza – impedisce una programmazione realistica della permanenza in Italia. Non riuscendo ad accettare del tutto l’essere profughi, i più vivono nell’illusione di un ritorno immaginato… “presto”, e non attivano tutte le risorse che sarebbero utili a migliorare la loro situazione. Le conseguenze negative di questo fenomeno ricadono soprattutto sui minori: se le mamme si illudono di poter tornare “…fra poco…”, il rischio è che quasi nulla si faccia per inserire i figli che le accompagnano. Quanto alle Cooperative che se ne occupano: tanti profughi, pochi operatori; per lo più bravi e motivati, ma pochi. Si sa, i conti devono tornare.
Dalla risposta i nostri limiti e risorse
La pace è fenomeno complesso, legato alla giustizia. Si costruisce poco a poco nel tempo. Ma viene propagandata come frutto di un generico rifiuto della guerra: semplificazione fuorviante. Sulla gestione del conflitto – anche politico – non abbiamo progredito. Infine, ogni rifugiato porta storie devastanti: richiederebbe una prossimità costante e preparata. Vediamo infatti che non è poco il lavoro richiesto dalla comunità che accogliamo. Non sempre siamo adeguati, nel fare emergono i limiti. Con gli Ucraini la nostra città si è comunque rivelata sensibile”.