Quale arte sacra oggi? Una proposta da Napoli
Si è svolta venerdì 6 e sabato 7 maggio 2022 la due-giorni «Quale arte sacra oggi?», promossa dalla Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia (Safat) della Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale (PFTIM) Sezione San Luigi, in collaborazione con la Fondazione Culturale San Fedele di Milano e con il patrocinio della Fondazione Posillipo.
La scuola d’arte, una finestra sul mondo
Ad aprire i lavori i saluti della condirettrice della Safat, Giuliana Albano, del decano della PFTIM Sezione San Luigi, Mario Imperatori sj, e del preside della PFTIM, don Emilio Salvatore. «Questo convegno – ha sottolineato la Albano – è il primo del 2022 ed è anche il primo completamente assunto dalla Sezione San Luigi e dalla Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale». La Scuola, ha infatti aggiunto padre Imperatori «è ormai istituzionalmente inserita a pieno titolo all’interno della nostra Sezione. Proprio mercoledì il Consiglio di Sezione ha dato la sua approvazione alla versione definitiva degli Statuti della Scuola, nella convinzione che essa costituisce una preziosa finestra sul mondo che ci circonda, grazie anche alle molteplici collaborazioni cui ha saputo dar vita». La Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia, ha concluso il preside Emilio Salvatore, «all’interno della complessa realtà della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, costituita da molteplici articolazioni dedite non solo all’insegnamento ma anche alla ricerca, costituisce una punta avanzata della nostra idea di teologia intesa, alla luce dei criteri indicati da papa Francesco nella Veritatis Gaudium e proprio qui ribaditi il 21 giugno del 2019, non come trasmissione di un sapere ma condivisione di una ricerca, contrassegnata dal dialogo».
Una pietra tolta da un sepolcro vuoto
La stessa nascita dell’arte sacra cristiana può esser ricondotta ad un dialogo, quello con Dio a partire da una ‘pietra tolta’, da un ‘sepolcro vuoto’. «Molti esegeti – ha messo in evidenza il direttore della Safat, Jean Paul Hernandez sj, nel suo intervento introduttivo Fare memoria del passato per elaborare il presente – ci spiegano infatti che nei primi anni della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme era nata l’usanza di recarsi la mattina presto alla tomba di Cristo. Essa veniva probabilmente fatta visitare vuota e in essa si ascoltava liturgicamente l’annuncio della Risurrezione, proclamato da un celebrante, diventato ‘l’angelo’ nei nostri racconti evangelici. L’arte sacra cristiana nasce dunque per il kerygma di Pasqua, anzi come parte integrante del kerygma di Pasqua. La complementarietà biblica fra ‘segno’ e ‘parola’ arriva qua a un parossismo: la tomba vuota non ‘dimostra’ la risurrezione, ma la ‘mostra’, permettendo alla Parola di ‘riecheggiare’ in essa. Non è un caso se la parola greca con cui quasi tutti i racconti della Risurrezione designano il sepolcro di Cristo è mnemeion che significa anche ‘monumento’. È un vocabolo molto vicino al termine ‘memoriale’, perché la radice è il verbo mimnesco (ricordare). Ma la valenza del ‘memoriale’ nella cultura ebraica è molto più pregnante. Dire che Maria di Magdala si reca ‘al monumento’ di Cristo è dire che essa si trasporta ‘attraverso la memoria’ all’incontro stesso con Cristo. Si noti che questo incontro ‘fisico’ con il Vivente è possibile perché il ‘monumento’ è vuoto. Ma è un vuoto per un incontro. È uno spazio che permette una circolarità fra la Parola ascoltata e i segni osservati. Segni che permettono di arrivare alla fede quando illuminati dalla Scrittura. L’arte sacra cristiana è dunque uno spazio dove i segni di morte diventano luogo d’incontro col Vivente. Questo vuoto è paradossalmente un luogo rivelativo, dove si sperimenta una trasfigurazione dello sguardo. L’assenza diventa la promessa per eccellenza di una in-immaginabile presenza. E questa promessa è la relazione che permette di guardare ogni vuoto della terra come ‘segno’ del Vivente. L’arte diventa ‘arte sacra cristiana’ quando permette questa trasfigurazione».
L’arte che genera l’uomo
Le voci di critici d’arte, artisti, filosofi, liturgisti ed esperti del settore si sono susseguite nelle tre successive sessioni di lavoro, articolate secondo un approccio interdisciplinare dai direttori scientifici del convegno, Giorgio Agnisola e Andrea Dall’Asta sj.
Al rapporto tra liturgia ed estetica è stata dedicata la prima sessione, coordinata da Andrea Dall’Asta, direttore della Galleria San Fedele di Milano. «L’arte è quanto di essenziale accade all’uomo, prima di essere un prodotto dell’arte – ha messo in evidenza il professore Secondo Bongiovanni sj (PFTIM Sezione San Luigi), nell’intervento Il “sacro brivido” dell’arte -. È l’arte che genera l’uomo, aprendolo ad un nuovo modo di pensare. L’opera dell’arte è la messa in opera del mondo umano, del rapporto originario tra uomo e mondo e del suo sfociare nel sacro. L’arte ci consegna la possibilità di attraversare il sacro brivido nel rapporto col mondo, ci espone alla dissolvenza del reale assumendone la sfida. Essa diventa sacra quando pone davanti a noi il terribile bisogno di salvezza: la bellezza salva quando mette di fronte al bisogno di salvezza dell’uomo». E il sacro, ha aggiunto Giorgio Bonaccorso osb, (Istituto di Liturgia Pastorale di Santa Giustina), nell’intervento La liturgia come estetica della fede, «è per natura sua contestuale. Così come l’arte è per natura sua contestuale. Bisogna stare nel sacro. Bisogna stare nell’arte. Non c’è infatti rivelazione se non nell’atto dell’esperienza. Ecco perché il luogo di quell’esperienza è il corpo. L’esperienza artistica come l’esperienza di fede non operano per deduzione o produzione ma per ‘se-duzione’: essere sedotti vuol dire ‘incontrare’ non nell’oggettività del pensiero, al crocevia di azione, emozione e, infine, cognizione. Il rito ha valore se è azione e emozione: uno dei problemi attuali della liturgia è invece l’iniziazione, perché è istruzione». L’arte può quindi dare un forte contributo nella ricerca di assoluto presente nel cuore di ogni uomo: «La via estetica – ha proseguito Nicola Salato ofm cap (PFTIM Sezione San Luigi) nell’intervento La via estetica nella Chiesa. Una prospettiva teologica sull’arte – è quella strada che riguadagna il singolare contributo che l’esperienza artistica offre alla ricerca della verità, presente nell’uomo, diventando così via revelationis o, quasi, una forma di trascendenza inerente all’arte stessa. Quest’ultima diviene così per la liturgia un vero e proprio mezzo di mediazione che, come il rito sacramentale, permette una possibile relazione con l’alterità di Dio». L’ immagine, ha precisato infatti Roberto Diodato (Università Cattolica del Sacro Cuore) nell’intervento L’immagine, tra idolo e icona, è un’entità relazionale: «immagine si dice –di, di questo o quello, di qualcosa di altro da sé; sembra essere un ente esistente quale relazione, un ente ibrido, di difficile collocazione ontologica, che appare, si tratti di immagine mentale o fisica, in un supporto pur non coincidendo con esso. Immagine è ente che rinvia, che ha valore conoscitivo ed etico – mette in gioco pensiero e libertà – influenzato dallo sguardo proprio della forma d’epoca. E qual è il sentire del nostro tempo? C’è stata una trasformazione antropologica e l’essere umano è una nuova specie, è l’uomo consumatore e il nostro sentire è diventato ripetizione di un sentire già dato che ci chiede solo di essere ricalcato, mettendo a rischio pensiero e libertà. Per questo l’arte può assumere una funzione riflessiva facendoci fare un passo indietro».
Cambiare approccio
Nel pomeriggio, Giorgio Agnisola, coordinatore dell’area di ricerca della Safat, ha moderato la sessione sul panorama dell’arte sacra in Europa e in Italia: dopo le relazioni di Bert Daelemanssj (Pontificia Università Comillas di Madrid) e Andrea Dall’Asta sj, il tema è stato affrontato in un dialogo con gli artisti Nicola De Maria, Ettore Frani, Giovanni Frangi, Bruna Esposito.
Un confronto, quello della seconda sessione, che ha avuto l’obiettivo di «sottolineare – ha spiegato Agnisola – la necessità di cambiare approccio rispetto alla questione del rapporto fra arte e fede, fra arte e liturgia, ma in generale rispetto al rapportarsi della chiesa con il mondo dell’arte. Questo è il tempo di domandarci ‘cosa l’arte possa dire alla fede’ e non ‘cosa la chiesa possa dire all’arte’. Un cambiamento di prospettiva che, nel rapporto tra arte e liturgia, non può non partire dal presupposto che il contributo dell’arte al contesto liturgico si lega al suo essere strumento di rivelazione dell’oltre. Nonostante i significativi discorsi dei recenti pontefici, da Paolo VI a papa Francesco, la carenza di un autentico dialogo tra gli artisti e la chiesa è tuttora viva». «Viviamo – ha aggiunto Andrea Dall’Asta nell’intervento Arte e Liturgia un panorama italiano – purtroppo in una sorta di impasse creativa, per cui il gesto invocato a creare immagini cultuali appare impacciato, disorientato. Il mondo dell’immagine appare svuotato della sua potenza simbolica. Occorre invece entrare nel profondo della tradizione per interrogarla, per veder come la fede può essere restituita nei nuovi linguaggi: la vera tradizione è sempre generativa non ripete modelli esteriori. Occorre domandarsi cosa voglia dire riflettere sulla fecondità del nostro passato, su come iscrivere la tradizione nella modernità. Troppo spesso, si dimentica che la riflessione sull’arte sacra contemporanea non è semplicemente un fatto di gusto estetico o un problema stilistico, ma è rivolta a comprendere le modalità con le quali la comunità credente vive l’esperienza di Dio, celebra i propri riti. L’immagine rivela un’esperienza di fede. In questo senso, occorre chiedersi perché le immagini sacre contemporanee che affollano le nostre chiese appaiono artificiali, collocate al di fuori del mondo reale, dilettantesche e amatoriali, frutto di una ripresa necrofila del passato. È semplicemente cattivo gusto o piuttosto occorre ammettere la sfiducia della Chiesa di oggi che il Vangelo possa fecondare e animare la cultura del nostro tempo?». Gli edifici di culto sono quindi chiamati ad essere spazio sinestetico, ha detto Bert Daelemans nell’intervento Arte liturgica in Europa: orientamenti e prospettive, «qualcosa di unico in cui si deve entrare per fare esperienza. Spazio mistagogico e al tempo stesso terapeutico perché permette di sedersi in silenzio e ascoltare le domande esistenziali; kerigmatico perché entrare in uno spazio sacro è entrare in una storia, e i simboli ci aiutano a comprendere questa storia. Ciò che è importante in una chiesa viene dall’azione e non dall’arredo, per questo bisogna mirare a conservare il carattere santo dei luoghi più che il provvisorio sacro».
Intensi gli interventi dei quattro artisti invitati a condividere la loro esperienza con ‘il sacro’ che, per Bruna Esposito, è stata caratterizzata da «un ascolto senza pregiudizi del luogo dedicato, della comunità, dell’architettura. Tracce seguite come un segugio»; che Giovanni Frangi porta avanti con libertà «perché una artista deve seguire la sua via, non può alterarla. E la questione del dialogo arte-chiesa nasce da qui»; che per Nicola De Maria è invece «un chiudersi dentro e aspettare, attraverso la parola che viene direttamente da Dio, aspettare la vocazione perché la materia diventi colore e forma; se incontriamo la vocazione allora si può ancora lavorare accanto alle reliquie»; che per Ettore Frani è preghiera, perché «per me la pittura prima di essere un modo di organizzare la forma è un percorso di trasformazione, di confronto con il senso insondabile della vita. La pittura è legata allo stupore ontologico dell’esistenza, una pratica intima legata al sentimento religioso che ho per la vita».
La giornata del 7 maggio si è aperta con la sessione dedicata ad esempi di interventi di arte liturgica in Italia, moderata dalla condirettrice della Safat, Giuliana Albano. «Una serie di interventi – ha spiegato la Albano – pensati per cogliere le dinamiche della realizzazione di spazi liturgici dove si incrociano questioni che chiedono interdisciplinarietà e dialogo tra i saperi specifici, per giungere ad una unità che scaturisce dalla molteplicità delle vedute. Una giornata di domande che generano orizzonti nuovi e di confronto non solo tra addetti ai lavori ma anche con il territorio, con la città, attraverso la voce di realtà associative che lavorano per riportare l’arte alla sua essenza di dialogo con l’altro per incontrarne le istanze più profonde».
Il valore trascendente dell’immagine
Emma Zanella, direttrice del MAGA, ha presentato l’altare e l’ambone di Claudio Parmiggiani alla Basilica Santa Maria Assunta di Gallarate, «un intervento – ha detto – nato nel contesto di un grande restauro della Basilica. La scelta di Parmiggiani non è dipesa solo dal fatto che in più occasioni si era confrontato in modo serio e convincente con l’arte sacra ma perché con il suo linguaggio poteva mostrare il valore trascendente dell’immagine. Parmiggiani ha dialogato con l’architettura e con la commissione responsabile realizzando un altare in cui, come ha spiegato l’artista stesso, ‘una moltitudine di teste antiche concorrono alla costruzione spirituale di un’architettura morale’ per accogliere nell’altare l’intera umanità». L’architetto Patrizia Leonelli, ha raccontato la cappella e sala del commiato di Villa Serena, da lei realizzata in collaborazione con l’artista Ettore Spalletti: «Ettore mi ha chiesto di ripensare l’architettura – ha detto – perché accogliesse le sue opere. Quando è venuto a vedere lo spazio ha cercato un colore che potesse dialogare con la luce. La sua pittura ha dilatato lo spazio chiuso in una dimensione senza tempo. Il colore è paesaggio, come pure la luce», uno spazio che Dall’Asta ha descritto come capace di anticipare la gloria del paradiso. Si invita l’osservatore a immergersi in un paesaggio in continuo movimento. Don Francesco Gaddini, direttore dell’ufficio Beni culturali della diocesi di Pescia, ha infine condotto i presenti alla scoperta dell’adeguamento liturgico della cattedrale della città toscana: «La Cattedrale proviene da una pieve del 1100 e ha subito tantissimi restauri e ogni intervento di restauro ha lasciato la sua traccia. C’erano non pochi problemi strutturali. Si è scelto quindi di fare un grande lavoro di restauro che ha comportato un grande lavoro di studio. Abbiamo poi scelto di fare un concorso per l’affidamento dei lavori. I gruppi che potevano partecipare dovevano essere composti anche da liturgisti. Inoltre, la commissione giudicatrice, composta da esperti, ha fatto una serie di incontri di formazione che ha permesso una grande capacità di giudizio. L’adeguamento liturgico è stato poi presentato alla città. Il progetto scelto è caratterizzato da una centralità data alla meridiana presente nella zona del presbiterio, che lega azione liturgica e azione del tempo; da una particolare tecnica di mosaico per le decorazioni, opera di quattro artisti; da una felice integrazione degli elementi medioevali».
I percorsi di formazione
Dopo una breve pausa, i lavori sono continuati sul tema della formazione all’arte sacra. Claudia Manenti, direttrice Dies Domini Centro studi per l’architettura sacra di Bologna, è intervenuta su Arte contemporanea per le chiese: i percorsi di formazione dei giovani artisti: «Pur avendo ancora un ruolo importantissimo per le comunità, l’arte ha oggi difficoltà nel condurci a pregustare la liturgia celeste. C’è proprio una frattura che si è creata e che è molto profonda e che va colmata perché l’arte torni a parlare quel silenzio cristiano che ci nutre e dia voce a quella ‘bellezza antica e sempre nuova’ di cui questo tempo è assetato. I percorsi di riavvicinamento al mistero, rivolti agli artisti, vanno proprio in questa direzione». Natalino Valentini, studioso del pensiero filosofico russo e di teologia ortodossa, è intervenuto su Conoscere e annunciare la bellezza. Quale formazione all’arte sacra oggi? «Il problema – ha evidenziato – è che nonostante il prezioso deposito della tradizione la maggior parte delle nostre chiese considera l’arte come orpello e non come possibilità di evangelizzazione. Occorre avviare una nuova prospettiva sull’arte sacra che esige una rigenerazione di un’estetica della fede e allo stesso tempo anche l’acquisizione di nuove competenze. Siamo sollecitati a riscoprire e a colmare questo deficit di formazione all’arte sacra. Penso al nostro Paese dove i 2/3 di patrimonio sono di matrice religiosa e abbiamo solo sei o sette centri di formazione adeguata all’arte sacra». Ultimo intervento, quello di Marco Botti, coordinatore della comunità Pietre Vive di Napoli, che è intervenuto su Leggere l’arte in chiesa, presentando l’impegno della comunità: «Restituire l’opera d’arte al contesto di fede e preghiera che l’ha generata. È una risposta al turismo di massa che è soprattutto turismo religioso ed è anche tentativo di sanare una dicotomia che spesso troviamo davanti alle nostre chiese tra quanti approcciano i luoghi come turisti e quanti li approcciano come pellegrini. Una risposta che si fonda su quattro pilastri: comunità preghiera, formazione, e annuncio. Proprio la preghiera differenzia la nostra realtà: per invitare alla preghiera bisogna essere comunità di preghiera».
Circa cinquanta gli iscritti online e cento quelli in presenza. Questi ultimi sono stati coinvolti attivamente nei lavori attraverso cinque gruppi di confronto. La sintesi di quanto emerso da ogni gruppo è stata riportata dai moderatori in assemblea.
Le sintesi dei gruppi di studio
«L’icona è un invito ad entrare nella relazione. Da questo passaggio dell’intervento del professore Diodato – ha raccontato Luigi Territo sj (PFTIM Sezione San Luigi) che ha coordinato il gruppo su L’immagine tra idolo e icona – abbiamo riflettuto sull’icona e sul suo non sostituire l’assente che evoca, ma rilanciare una relazione, un dialogo tra il nulla e l’essere, senza pretese in sé sacralizzanti, perchè il sacro non è nell’oggetto ma nella relazione. Ci siamo interrogati sul grande tema della comprensibilità dell’arte sacra contemporanea e sulla contemporanea richiesta di simboli chiari come la luce, pane, acqua; sulla necessità di un’arte che sappia dire il nome di Dio in Gesù Cristo e non si nasconda; sul limite imposto dall’arte sacra, un limite che fa crescere all’interno anche lo stesso artista; sul ruolo dell’artista come magister della comunità».
Emanuele Gambuti (Safat) ha invece coordinato il gruppo su Quale arte negli edifici ecclesiali?, nel quale, ha spiegato, «si è avvertita la necessità di operare nella direzione di chiari collegamenti tra opera d’arte, contesto e liturgia e si è riconosciuto il ruolo fondamentale non solo della formazione degli artisti ma anche della committenza. Formazione che non è sempre presente. Ci si è inoltre soffermati sul concetto di ‘contestualizzazione’ che è essenziale e che va legato all’uso della delicatezza nell’intervenite. Si è inoltre posta attenzione all’importanza della partecipazione della comunità e all’essere le architetture sacre fatte di ‘pietre vive’».
Gli interventi del gruppo su L’arte liturgica tra passato e presente, affidato a Davide Dell’Oro sj (Safat) hanno evidenziato invece «una tensione tra esperienza del gesto creativo dell’artista, originaria e spirituale – ha detto il professore – e l’esperienza della fede in Gesù Cristo che è kerigmatica e preceduta dalla testimonianza e dall’esperienza di altri, di una comunità e di una liturgia. Da qui la sottolineatura dell’importanza del dialogo tra la comunità e gli artisti e della formazione dei presbiteri che si trovano a curare gli spazi sacri che spesso sono gestiti come fossero ‘casa propria’».
Il direttore Jean Paul Hernandez ha coordinato il gruppo su Arte liturgica: tra figurazione e non figurazione. «Figurativo e/o non figurativo, binomio o tensione? Alcuni hanno parlato di alternativa e sottolineato la preferenza verso l’arte figurativa. Altri invece, in maggioranza, hanno parlato di una domanda provocatoria perché ogni arte può ritenersi astratta. Ci si è quindi soffermati sull’esperienza del singolo artista, se nell’esperienza generativa dell’opera l’artista si pone come chi genera nel grembo della fede o che tipo di accompagnamento ha un artista nel confronto con il mistero; e poi che tipo di esperienza provoca l’arte dell’artista, se è mettersi davanti al sacro generico o ad un’esperienza mistagogica».
Nell’ultimo gruppo In che senso l’arte liturgica è un luogo teologico?, coordinato da Nicola Salato ofm cap., sono emersi vari aspetti «in particolare quello del ruolo marginale che l’arte ha nei luoghi di formazione teologica – ha evidenziato padre Salato – mentre l’arte aiuta a trovare un senso e un’identità, anche alle comunità cristiane, come la storia della Chiesa dimostra. Nella bellezza, infatti, la comunità cristiana scopre una forza dinamica che incoraggia a ritrovare il senso profondo dell’uso dell’estetica nella Chiesa».
«Questo convegno – ha sottolineato Giorgio Agnisola nelle conclusioni – non ha avuto l’obiettivo di fornire soluzioni ma di far emergere nuove domande e aprire nuovi orizzonti per la ricerca e il dialogo futuri. Ecco perché abbiamo voluto fortemente coinvolgere gli artisti e creare gruppi di lavoro per i partecipanti. Anche questi contributi entreranno a far parte della pubblicazione degli atti».
La fatica di educare lo sguardo
«Concludiamo questo convegno con la convinzione che da parte della comunità ecclesiale occorra puntare sulla formazione – ha aggiunto il professore Dall’Asta -. Sulla formazione estetica che è davvero lasciata all’abbandono. Serve educazione allo sguardo. Il ‘mi piace’ e il ‘non mi piace’ non può essere criterio ‘per arredare spazi’, espressione usata ma che aborrisco. Gli spazi sacri non si arredano e l’educazione allo sguardo richiede fatica, sensibilità, lavoro, conoscenza di se stessi e degli altri. Educare allo sguardo richiede coraggio. L’immagine non serve a niente, secondo una logica economica, non è prodotta, ma l’arte è evento, accade, ti mette in un’esperienza in cui la totalità dell’uomo è chiamata a rispondere. C’è un’immagine che mi accompagna da anni, – ha continuato – commentata da Basilio il Grande e ripresa da papa Ratzinger: quella di Amos coltivatore di Sicomori. Chi è il coltivatore di sicomori? È colui che ad un determinato momento della maturazione del frutto compie un’incisione su di esso, perché da quel frutto fuoriesca il succo cattivo. Grazie a questa “ferita”, il frutto può diventare commestibile, buono e gustoso. E quell’incisione è il Logos, la Parola di Dio che si fa carne. Questa Parola separa, risana e purifica. Mi immagino l’arte come quel frutto dopo l’incisione. L’esperienza estetica nasce da questa ferita che permette di trasformarci, affinché ci poniamo correttamente le domande fondamentali dell’esistenza e le interpretiamo con i linguaggi dell’oggi. E oggi, occorrono tanti «coltivatori di sicomori», che intervengano con competenza, conoscenza dei frutti e del loro processo di maturazione». A volte, percepisco l’arte liturgica come chiusa in un piccolo fortilizio. Stamattina il Decano della Scuola, il prof. Mario Imperatori, mi chiedeva perché gli artisti che abbiamo ascoltato non fossero mai stati coinvolti realmente in una dimensione ecclesiale. La prima incisione di questo frutto potrebbe essere una diversa modalità di coinvolgere la comunità e di coinvolgerci superando il ‘mi piace e ‘non mi piace’, superando la logica di chiamare ‘l’amico dell’amico’. E questo richiede una ferita. La ferita è questa incisione. Allora io chiedo al Signore che tutti noi possiamo diventare coltivatori di sicomori, affinché incidiamo il nostro narcisismo, quello della comunità ecclesiale, quello della chiesa, perché, insieme, possiamo ricercare, attraverso i sentieri dell’arte, che sono quelli della bellezza, quel percorso di salvezza che siamo tutti chiamati a interpretare e riconoscere in questa vita. Che il Signore ci aiuti in questo compito».