Roma. La rifondazione della giustizia: a colloquio con padre Occhetta
In occasione dell’uscita del volume di p. Francesco Occhetta, “La giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione” si è tenuto di recente a La Civiltà Cattolica un convegno intitolato “La giustizia in Italia. Vittime e detenuti allo specchio della giustizia riparativa”, con Gian Maria Flick, già presidente della Corte Costituzionale e Francesco Cananzi, membro togato del Consiglio superiore della magistratura. Con padre Occhetta approfondiamo il tema, anche alla luce della situazione italiana.
Partiamo dal libro e dall’idea di fondo. Definiamo i termini del discorso: giustizia riparativa, retributiva e rieducativa. Il significato e la relazione tra le tre.
Il volume pone al centro dell’Ordinamento giuridico e della cultura il dolore delle vittime. Ma anche la possibilità dei colpevoli di riparare, sia le fratture di relazioni causate sia ciò che è stato rotto. Si capovolge la giustizia quando ci si chiede: chi è colui che soffre? Qual è la sofferenza? Chi ha bisogno di essere guarito?
Nel volume spiego la «giustizia riparativa o riconciliativa», che non sostituisce le altre, ma vuole rifondarle. Il modello, nato negli anni Settanta negli Stati Uniti, è entrato in Italia negli anni Novanta, e permette sia di offrire alle vittime un ruolo attivo nell’ottenere giustizia, sia di restituire alla società la responsabilità di rieducare. Anche la legge positiva lo sta gradualmente integrando sia nei carceri minorili sia per i reati minori. Ancora molto bisogna fare, però, sulla preparazione dei mediatori, che sono le persone grazie alle quali vittime e colpevoli si incontrano. Manca una cultura diffusa che li riconosca.
Il sistema penale classico su cui si fonda il nostro sistema giuridico si basa sul modello di «giustizia retributiva», che garantisce due fondamentali princìpi: la certezza della pena e la sua proporzionalità alla gravità del danno causato. È stato pensato nella storia del diritto per rispondere a tre domande: quale legge è stata infranta? chi l’ha infranta? quale punizione equivalente dare? In questo sistema la vittima e la comunità civile non hanno voce, mentre al sistema carcerario si delega la rieducazione dei detenuti.
Poi c’è il modello di «giustizia rieducativa», in cui chi commette reati deve essere rieducato (psicologicamente, umanamente ecc.) per dimostrare il cambiamento della propria personalità e dei propri comportamenti.
A questo proposito dalla tavola rotonda. “La giustizia in Italia. Vittime e detenuti allo specchio della giustizia riparativa” quali spunti sono emersi?
Ne sono emersi molti. Ma più che idee, la conferenza ha permesso di confrontarci con molti dei protagonisti della giustizia in Italia, che erano presenti in sala. Questo modello di giustizia è stato considerato dai due relatori come integrativo. Il prof. Flick, già Presidente della Corte Costituzionale e Ministro della Giustizia, e il dott. Cananzi, membro togato del Csm, hanno anche evidenziato le condizioni per poter far sì che questo modello cresca: investire di più e meglio nella macchina giustizia essere attenti dal fenomeno del “vittimismo” che può creare allarmi e paure sociali a scapito dei detenuti che sono da rieducare. La conferenza è possibile riascoltarla a questo link .
La giustizia e la riabilitazione. Con i ritardi nei processi e i vari mali della giustizia italiana che prospettiva realistica c’è?
È una scelta di cultura giuridica e sociale che parte da un dato: il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69 per cento; questo significa che dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere. La riabilitazione prevista dalla Costituzione all’art. 27 va ripensata. E la giustizia riparativa è un modo significativo.
Sulla questione dei ritardi va fatta una scelta. Mi chiedo: ha un senso lasciare in carcere giovani prostitute africane vittime della tratta, oppure persone senza dimora per aver rubato un cappotto o dormito in un’auto per evitare di passare la notte al freddo? Qualsiasi tentativo di riforma deve partire dalla considerazione degli ultimi e dei più indifesi. È per questo che, da anni, ho proposto in più di uno studio pubblicato su La Civiltà Cattolica, di depenalizzare i cosiddetti «reati bagattellari», per alleggerire i costi e diminuire il carico della giustizia penale. Si tratta di reati che, per la loro minima lesività, rivestono una minore rilevanza sociale e possono quindi essere repressi con sanzioni contravvenzionali o amministrative. Non si tratta di forme di indulgenza o di falso buonismo, ma di strumenti capaci di migliorare l’esecuzione penale e rendere la pena conforme alle finalità rieducative previste dalla Costituzione. Questa proposta non coincide con quella di chi vorrebbe il numero chiuso dei detenuti nelle carceri. L’Italia non ha ancora maturato quella cultura del rispetto della legge che caratterizza i Paesi scandinavi, in cui questa scelta è stata fatta. Tuttavia, è possibile aprire un credito di fiducia per favorire le pene alternative in comunità terapeutiche, nelle case-famiglia, o attraverso gli arresti domiciliari, rendendole così più umane. Tra le 29.747 persone che stanno usufruendo di misure alternative al carcere, il tasso di recidiva è invece del 19 per cento. Se soltanto la recidiva calasse dell’1 per cento, lo Stato risparmierebbe circa 51 milioni di euro.
Può raccontare qualche esperienza in questo settore in cui sono coinvolti i gesuiti?
Nel binomio del servizio della fede e della promozione della giustizia che le ultime Congregazioni Generali chiedono alla Compagnia la giustizia restaurativa è una forma di riconciliazione. In molte parti del mondo i gesuiti lavorano e promuovono questo modello. Da molte esperienze latino americane che conosco direttamente a quelle dell’Asia che invece ho letto. In Italia è uno dei temi cari al Centro culturale San Fedele e al Centro Arrupe; in concreto è portato avanti dalla Sesta Opera (il volume contiene una lunga intervista al presidente Guido Chiaretti), dalla Galleria e dalla rivista Aggiornamenti Sociali. A livello culturale il p. Pietro Bovati ha approfondito il tema della riparazione nell’Antico testamento. Tra i gesuiti italiani è il p. Bertagna che insieme ai professori Ceretti, Eusebi, Mazzuccato ed altri, è quello più impegnato sulla frontiera. Nei campi estivi di San Giacomo si è approfondito il tema. Credo che qualcosa si faccia anche nei nostri Collegi. Il tema richiede una bonifica culturale, inizia dalla formazione.
Possiamo approfondire l’eredità del cardinale Carlo Maria Martini in questo ambito?
Il cardinale Martini ha tracciato un solco indelebile nella Chiesa italiana. Molti suoi scritti sono su questo tema. Mi limito a ricordarne uno dei primi: parlando ai detenuti nel carcere di San Vittore a Milano, nel 1985, li invitò a rileggere la loro pena alla luce di alcuni insegnamenti biblici. Nella colpa – egli disse – c’è già la pena. La pena – aggiunse – trasforma la colpa in responsabilità. Secondo il suo insegnamento l’intervento di Dio giudica gli uomini nella colpa, ma non li fissa in quella colpa. Questo modello di giustizia è parte dell’eredità che ci ha lasciato.