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Spadaro: “Io e il racconto degli incontri del Papa con i gesuiti”

Come accade molto spesso durante i suoi viaggi apostolici, Papa Francesco ha incontrato i gesuiti durante il suo recente viaggio nel cuore dell’Asia: sia in Myanmar sia in Bangladesh.

Testimone attento e privilegiato di questi incontri è il direttore di Civiltà cattolica, padre Antonio Spadaro (“Essere nei crocevia della storia“). Come avvengono questi momenti? quale clima si respira? cosa dicono alla Compagnia in particolare?

Lo abbiamo chiesto a padre Spadaro.

“Macchina fotografica e telecamera sono presenti solo all’inizio, al momento dei saluti, poi vanno via. Io registro l’incontro: il Papa lo sa. Poi lo trascrivo e glielo sottopongo. Lui lo rivede, con cambiamenti minimi, se necessari per la migliore comprensione di un messaggio che nasce orale. L’obiettivo è al pubblicazione su La Civiltà Cattolica, che ovviamente non è mai scontata. Decide lui. Fino ad oggi lo ha sempre permesso”.


Lei come vive questi momenti? E in particolare questo ultimo viaggio, tanto complesso da diversi punti di vista?

“È sempre bello, per quello che riguarda la mia personale esperienza, ritrovarmi con gruppi di gesuiti, in tutti questi vari paesi del mondo: sono uno di loro, ma sono lì come un testimone che ascolta e che preserva la memoria di un incontro. Come ho cercato di dimostrare nel mio bilancio del viaggio su La Civiltà Cattolica , il senso di questo difficile viaggio apostolico si può riassumere con due parole: profezia evangelica e diplomazia.

Nell’itinerario di Francesco nel cuore dell’Asia c’è una dimensione geopolitica, che si intreccia con la questione religiosa. Francesco ha agito per favorire il dialogo tra etnie e religioni, cercando soluzioni costruttive alle crisi. È la chiave della «diplomazia della misericordia» di Bergoglio: non fa cose per pressione mediatica o per acquisire luce positiva, ma fa quel che deve fare per «costruire» ponti e tenere aperte le porte del dialogo. Senza mai negoziare la verità”.

E’ emblematico il caso dei rohingya…

“Certamente, in Myanmar ha saputo parlarne in modo da essere ascoltato senza acuire le tensioni e provocare irrigidimenti e polarizzazioni che avrebbero soltanto complicato la loro situazione. E poi li ha incontrati in Bangladesh, faccia a faccia. In questo senso ha saputo sapientemente coniugare diplomazia e profezia. E ha lasciato sotto i riflettori del mondo per diversi giorni la tragedia di una popolazione perseguitata, costringendo i giornali stessi a parlarne”.

Dell’incontro con i profughi ha parlato a lungo con i gesuiti. Con quali toni?

“L’incontro con i gesuiti in Bangladesh è avvenuto venti minuti dopo incontro con i profughi rohingya. Il Papa ha espresso i suoi sentimenti più profondi – “Provo vergogna per me stesso, per il mondo” – comunicando la sua situazione spirituale, ciò che ha avvertito nel profondo, davanti a quello che è accaduto a questo popolo. L’abbraccio che ha potuto dare ai profughi, l’ascolto, la preghiera si sono espresse nella loro intensità anche nel colloquio con i gesuiti. E’come se avesse comunicato quello che è accaduto dopo averlo tenuto nel suo cuore per giorni”.


Come vive questi incontri il Papa con i suoi confratelli?

“Ciò che colpisce sempre, in questi casi, è l’apertura del suo cuore. Il Papa si sente a proprio agio. E alle domande, che sono impegnative, risponde come gli viene, facendo riferimenti a episodi e a figure della Compagnia vissuti in passato, — come il padre Arrupe per esempio, che è spesso nei suoi discorsi —, o alla spiritualità ignaziana. Mi colpisce questo suo lungo dialogare con i gesuiti e il fatto che esprima i suoi sentimenti, i suoi pensieri, in questi incontri che non avvengono alla fine, ma durante i viaggi, a metà. Quando cioè non ha avuto il tempo di valutare in maniera piena e finale quello che ha vissuto. Lo sta vivendo e lo comunica ai confratelli. Anche il desiderio che ha di ricevere domande è singolare: Francesco non fa discorsi, vuole che le domande emergano. Ho l’impressione che le voglia proprio per capire meglio, per imparare e capire quali sono le vere questioni che i gesuiti si pongono.

Infine è molto bello vedere come il Papa sia contento quando i gesuiti vivono situazioni di frontiera o di emergenza in prima persona. Nell’incontro con i gesuiti del Bangladesh era evidente la sua gioia nel sapere che il provinciale aveva destinato due di loro a lavorare nei campi profughi.

Sono esperienze preziose e straordinarie di cui avverto la bellezza e la densità di un incontro tra fratelli su cui anche io ho bisogno di meditare con il tempo. Nel meditare le parole usate dal Pontefice in queste conversazioni occorre sempre ricordare quel che egli stesso ha scritto nella prefazione a un volume nel quale ho raccolte le sue precedenti conversazioni con i gesuiti durante i viaggi [Adesso fate le vostre domande. Conversazioni sulla Chiesa e sul mondo di domani, Rizzoli 2017]: «Devo dire che quei momenti li avverto molto liberi, specie quando avvengono durante i viaggi: si tratta dell’occasione per fare le mie prime riflessioni su quel viaggio. Mi sento in famiglia e parlo il nostro linguaggio di famiglia, e non temo fraintendimenti. Perciò quello che dico a volte può essere un po’ arrischiato». E ha aggiunto: «A volte quello che sento di dover dire lo dico a me stesso, è importante anche per me. Nelle conversazioni mi nascono alcune cose importanti sulle quali poi rifletto».

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