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Martini: «Gli atteggiamenti contemporanei di fronte alla nascita e alla morte: una sfida per l’evangelizzazione»

Le preferenze apostoliche universali dei gesuiti

Nascere e morire oggi
Dal 12 al 17 ottobre 1989, Martini partecipò a Roma al Simposio dei Vescovi europei sul tema «Gli atteggiamenti contemporanei di fronte alla nascita e alla morte: una sfida per l’evangelizzazione». Il Cardinale svolse la prolusione e tenne le conclusioni. Vista l’attualità del tema riproponiamo ampi stralci dell’intervento conclusivo, dal sito della Fondazione Martini.

Sintesi dei lavori e orientamenti
SCENDIAMO A CAFARNAO (cfr. Mt 4,13)
Rafforzare le speranze – Resistere al male nell’Europa d’oggi

Premessa

Non è facile individuare quale debba essere il genere letterario di questa mia conclusione. Se si prendesse semplicemente come riferimento la parola “conclusione”, basterebbe pensare ad una frase, ad una invocazione che serva a chiudere i nostri lavori di questi giorni davanti a Colui che è stato ogni giorno il nostro ispiratore, cioè Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo.

Vengono allora in mente alcune conclusioni delle lettere paoline, come ad esempio, quella della lettera ai Romani: “A colui che ha il potere di confermarvi secondo il Vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni ma rivelato ora ed annunziato mediante le Scritture profetiche per ordine dell’eterno Iddio a tutte le genti perché obbediscano alla fede, a Dio che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli dei secoli. Amen” (Rm 16,25-27).

Una tale conclusione esprime bene ciò di cui siamo occupati: il Vangelo da annunciare, il mistero da proclamare, perché in questa nostra Europa cresca l’obbedienza alla fede e l’uomo partecipi della sapienza di Dio in Cristo; sapienza di cui abbiamo cercato di cogliere le manifestazioni e il messaggio nei misteriosi eventi del nascere e del morire, così come sono vissuti oggi in Europa.

Ma il titolo del mio discorso così come è scritto nel programma ufficiale è più pretenzioso. Dice: “sintesi dei lavori e orientamenti”. Già la parola “sintesi” pone di fronte a un dilemma. Questi giorni sono stati densissimi. Le tre relazioni portanti sulla martyrìa, liturgia e diaconia rispetto al nascere e al morire ci hanno detto molte cose che sarebbe ingiusto voler restringere in poche frasi. Anche la discussione dei gruppi e in aula ci ha enormemente arricchito, in particolare con l’aiuto degli esperti. Infatti, l’argomento scelto entrava solo parzialmente nella nostra esperienza quotidiana di Vescovi. Tranne che nel caso di catecumeni adulti, noi battezziamo piuttosto raramente; salvo il caso della morte di preti o di eventi catastrofici, noi siamo poco in contatto con i morenti e con le famiglie nel dolore.

Tuttavia abbiamo vissuto questo Simposio con molta partecipazione: tutti noi, infatti, abbiamo una qualche esperienza almeno indiretta in questi campi. Se siamo coinvolti poco come celebranti, siamo però impegnati come pastori e maestri del nostro popolo, come consiglieri dei preti, come orientatori nei problemi che ci sono proposti dai laici. Il confronto fra le diverse esperienze ha messo talora in crisi alcune evidenze pratiche che ritenevamo acquisite, ha permesso una migliore valutazione dell’evoluzione in corso e ha stimolato la nostra immaginazione teologica e pastorale.

Mi riesce dunque difficile fare una sintesi dei contenuti, per i quali ci si dovrà riferire ai testi delle relazioni. Mi sembra, allora, che sia piuttosto mio compito tentare di dare una sintesi del tipo di cammino che abbiamo percorso, del processo di acquisizione che abbiamo vissuto, per richiamare poi gli orientamenti fondamentali e le indicazioni pratiche che sono emerse in ordine alla nuova evangelizzazione dell’Europa in questo scorcio del secondo millennio.

Alcune icone bibliche

Per aiutarmi a esprimere lo stato vissuto in questi giorni, vorrei rifarmi ad una pagina del Vangelo secondo Matteo, là dove si dice che Gesù, all’inizio del suo ministero, dopo aver superato le tentazioni, “lasciata Nazareth, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zabulon e di Neftali perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia” (Mt 4,13).

L’evangelista interpreta, dunque, quello che esteriormente non è che un semplice cambio di abitazione, come un fatto ricco di senso. Che cosa era Nazareth? Una insignificante borgata della Galilea, non nominata né dall’Antico Testamento, né da Giuseppe Flavio, né dal Talmud. Essa rappresenta il luogo della tranquillità paesana, delle semplici abitudini contadine, delle piccole gelosie e degli orizzonti ristretti. Al suo confronto, Cafarnao appare come la città aperta e complessa, luogo del lavoro e del commercio, dello scambio e del traffico, città di frontiera, nella Galilea delle genti, sede di un presidio romano, luogo di incontro tra diverse culture.

Andare a Cafarnao vuol dire, dunque, per Gesù, uscire dall’abituale, dal previsto, affrontare il cambio, gli incontri, ciò che noi oggi chiamiamo affrontare la “modernità”, la “complessità”, il “pluralismo”. Scendere a Cafarnao era affrontare il nuovo modo di vivere, la gente, la quotidianità segnata dal lavoro duro e dalla sofferenza, dal nuovo e dall’insicurezza.

Non per niente l’evangelista Marco descrive il primo soggiorno di Gesù a Cafarnao come un incontro con indemoniati e con tutti i malati (Mc 1,23.30.32). Gesù non affronta questo cambio quasi a malincuore, restando ancora nostalgicamente nel quadro nazaretano. Egli accetta Cafarnao, tanto che essa verrà detta la “sua città” (Mt 9,1). Questo non gli impedisce di essere libero e critico verso di essa. Non ne tace le colpe, non risparmia le ammonizioni, fino all’invettiva, come si vede in Matteo 11,23. Ma tutto parte da un intenso amore, da una quotidiana presenza, da un essersi fatto partecipe del destino e delle sofferenze quotidiane della sua gente.

Qualcosa di simile era stato detto agli esuli nel secolo quinto (di cui si racconta in Geremia 29) che vivevano della nostalgia dell’antica cultura gerosolimitana e si sentivano estranei nella terra di Babilonia. Il profeta Geremia non dice loro di dimenticare Gerusalemme, né proibisce di tenerne davanti agli occhi l’immagine ideale, ma interdice la nostalgia verso un modo di essere che più non c’è e più non sarà e li impegna a lavorare con amore in quella nuova città che, nel frattempo, senza che l’abbiano scelta, è stata loro assegnata dal succedersi degli eventi: “così dice il Signore Dio degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia: costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie; costoro abbiano figli e figlie. Moltiplicateli lì e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere” (Ger 29,4-7).

Anche Giona, inviato a Ninive, deve imparare a sue spese ad amarla e a godere della sua prontezza a convertirsi, perché come potrebbe Dio “non aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere tra la destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?” (Giona 4,11).

Una nostra esperienza

Mi pare di poter leggere nella luce di queste icone bibliche quel frammento di esperienza ecclesiale che è stato vissuto da noi, rappresentanti dei Vescovi europei, in questo Simposio.

Senza lasciarci andare a nostalgie per situazioni ormai passate, che pure potevano avere i loro vantaggi e la loro bellezza, abbiamo voluto chinarci con amore su quella che è la nostra città oggi, su quelle che sono le Nazareth, Cafarnao, Corazin, Betsaida, Tiro, Sidone, Ninive o Babilonia del tempo presente, senza dare a nessuno di questi nomi un tono di giudizio, ma pronunziando ogni nome anzitutto con amore e simpatia. Questo amore e questa simpatia non ci chiude gli occhi, come non li ha chiusi a Gesù che ha saputo, a suo tempo, pronunziare contro Cafarnao parole dure e come non li ha chiusi a Geremia che ha saputo, a suo tempo, stigmatizzare Babilonia. Ci ha anzi aperto gli occhi per guardare anzitutto ogni cosa con la sincera volontà di vivere e di giudicare a fondo le situazioni della gente che sono poi anche le nostre. Non sono infatti le vicende della nostra Europa qualcosa di diverso dalle nostre stesse vicende.

Noi vi siamo immersi come tutti gli altri, e il giudizio e il discernimento che ci è dato di esercitare si rivolge anche alla nostra parte di responsabilità e di partecipazione ai fattori di progresso o di declino della nostra società.

A partire da questo atteggiamento di fondo, ci siamo sforzati in questo Simposio di descrivere più da vicino alcuni fenomeni che toccano la nascita e la morte nelle nostre regioni e li abbiamo individuati anzitutto in quei fenomeni tecnici e scientifici che mutano considerevolmente le condizioni del vivere e del morire e portano, di conseguenza, mutazioni anche nella mentalità, nel costume, nel senso religioso.

Mutazioni evidenti

Sarebbe errato, e contrasterebbe con quanto abbiamo appena detto, parlare di queste mutazioni tecniche e sociali con l’idea che la semplice loro enumerazione contenga un giudizio, magari già sfumatamente negativo.

È stato l’errore in cui sono incorsi alcuni cronisti e alcuni titolatori che non hanno letto con sufficiente attenzione i testi e i resoconti dei nostri lavori. Noi abbiamo, anzitutto, constatato che i progressi della medicina hanno promosso notevolmente in questi campi la qualità della vita in Europa.

In Europa non si nasce più come trenta anni fa. Il tasso di mortalità infantile è ridotto quasi a livello zero e una gran parte delle interruzioni di gravidanza sono purtroppo frutto di una deprecabile scelta e non più di una fatalità.

In Europa non si muore più come trent’anni fa. Non siamo più, almeno nel nostro insieme, una società tradizionale. Tra i molti fattori che hanno condotto a questa trasformazione si devono annoverare al primo posto i progressi della medicina.

Le società europee possono essere giustamente fiere di essere state le prime ad assicurare in modo soddisfacente i bisogni sanitari della popolazione nel suo insieme. Le malattie infettive, nella loro quasi totalità, sono state vinte. La durata della vita è aumentata notevolmente, assicurando a molti lunghi anni di pensionamento attivo. La medicina ha inoltre permesso alle donne di partorire in un modo più sicuro e sereno per loro stesse e per i nascituri. Grazie ai progressi della medicina, molte, che erano sterili, hanno potuto conoscere la maternità.

La medicina non ha certamente il potere di eliminare la sofferenza umana, ma si deve pure annoverare a suo favore il fatto di lottare efficacemente contro il dolore fisico, spesso assai limitante la libertà e la vita spirituali. Già una quarantina di anni fa papa Pio XII incoraggiava a percorrere questa strada sostenendo la ricerca per la realizzazione del parto indolore.

Innegabilmente la medicina rappresenta un grande contributo per la qualità della vita: i cattolici ne sono così convinti, che, attraverso le loro attività caritative, si impegnano fortemente perché anche altre regioni del mondo possano beneficiare di questi progressi.

Effetti indiretti

E stato osservato, tuttavia, che la crescente tecnicizzazione della medicina produce anche effetti indiretti, non ancora ben dominati nelle nostre società, sugli equilibri umani. Si può ricordare, ad esempio, che nella maggior parte delle società tradizionali il mettere al mondo dei figli e il morire sono eventi sociali, altamente ritualizzati e integrati nella vita quotidiana delle famiglie e delle comunità.

Senza che nessuno l’abbia voluto, l’effetto dei progressi della medicina, a causa delle stesse esigenze della tecnica, è stato di sottrarre i momenti della nascita e soprattutto della morte al contesto familiare, di vicinato e di prossimità.

Così, dal momento che non si nasce e non si muore più in casa propria, com’era fino a trent’anni fa, le persone rischiano di divenire estranee a eventi importanti che pur li toccano da vicino. E, in particolare, il perdere l’esperienza della morte, può aumentare l’angoscia di fronte a tale prospettiva.

La vita quotidiana perde in serietà e in profondità. La morte è conosciuta soprattutto come spettacolo sugli schermi: non si sa più come comportarsi di fronte ad un morente, come vivere il lutto. Un vasto numero di persone, forse il 70% nei Paesi sviluppati, muore in ospedale, se non in totale solitudine, almeno in assenza della propria famiglia. Tale morte in solitudine è inumana perché viene a mancare la solidarietà in questo momento cruciale dell’esistenza.

Come risulta da quest’ultimo esempio, la medicina e i suoi progressi tecnici rappresentano soltanto un fattore del fenomeno preso in considerazione. La sola medicina non è sufficiente a spiegare l’attenuarsi e la perdita della solidarietà tra le generazioni: il fattore principale risiede nello stile di vita dei cittadini (dispersione dei membri della famiglia, orari troppo rigidi e limitanti, ecc.) e nelle scelte e nelle decisioni dei responsabili della politica e dell’economia: dimensioni degli alloggi, politica sanitaria per gli anziani, ecc. È tutto un insieme di fenomeni che cambiano la vita quotidiana che va tenuto sotto controllo. Quando la popolazione non sa reagire in modo creativo ai rischi di disumanizzazione, ne seguono conseguenze di frustrazione, amarezza, solitudine, angoscia.

Ricerca di senso

Mentre la vita quotidiana cambia, l’esplosione delle scienze biologiche e delle possibilità tecniche che vi sono connesse hanno fatto sorgere nelle nostre società notevoli perplessità sull’inizio e sulla fine della vita.

Certamente la ricerca medica è condizionata da problemi finanziari, dalla competizione tra i ricercatori e da altri fattori ancora. Tuttavia non è né alla scienza né ai medici soltanto che si possono fare degli addebiti: i problemi etici, infatti, almeno nelle nostre società ‘democratiche, chiamano in causa i cittadini, i rappresentanti da loro eletti e le autorità morali della nazione. In molti Paesi, perciò, gli stessi ricercatori chiedono la costituzione di Comitati etici, per offrire orientamenti agli stessi studiosi.

Ma è per noi importante notare che i dibattiti etici nascondono un interrogativo più fondamentale: nell’ambito di questi problemi, i nostri contemporanei si interrogano ultimamente su che cosa sia vivere e morire per una persona umana.

È in questo contesto che noi constatiamo che la maggior parte degli europei si rivolge alla Chiesa. Quando sono concretamente posti di fronte alla vita nascente e alla morte, moltissimi europei chiedono qualcosa alla Chiesa, come dimostrano le statistiche riguardanti il battesimo e i funerali. Questi sono chiesti anche da molti che pure hanno problemi di fede o di morale o si trovano in una posizione ambivalente di fronte al messaggio cristiano. Tale richiesta mette anzi spesso in questione il discernimento dei nostri preti. In ogni modo, anche se non è sempre facile decifrarne il senso, questi sono i fatti presenti nell’attuale società europea.

Che cosa significano questi fatti? Come dobbiamo interpretarli? A quale tipo di azione ci ispirano? Innanzitutto è giusto riconoscere che essi, malgrado le ambiguità che possono talora comportare, sono nell’insieme una espressione di fiducia nei confronti della Chiesa. La gente sente malgrado tutto che la Chiesa possiede una sua competenza a riguardo del mistero del nascere e del morire e che da essa ci si può legittimamente attendere qualcosa. La richiesta di riti in tali occasioni comprende, inoltre, numerose altre attese più o meno esplicite, riguardanti la riaffermazione di alcune norme etiche, il senso globale della vita, la pertinenza del messaggio evangelico con ciò che la gente vive, spera o teme. Tali attese stimolano la Chiesa a esprimere parole e a proporre messaggi sulla vita e sulla morte, anche al di là dei singoli eventi di una nascita o di una morte.

Le domande fondamentali

Se ascoltiamo i nostri preti e gli operatori pastorali, le domande fondamentali si possono così specificare.

– Anzitutto per quanto riguarda i riti: c’è una domanda molto diffusa, che viene espressa talora magari in termini di esigenza o di pretesa, senza che chi la esprime sappia dirne bene le ragioni teologiche o di fede. Per questo nasce talora il sospetto che tale domanda sia originata da motivi troppo estrinseci (folklore, bisogno di non scontentare gli anziani della famiglia, qualche volta anche superstizione).
Tale domanda nasconde tuttavia nella maggior parte dei casi una realtà molto complessa. C’è il desiderio di essere accompagnati, di non essere lasciati soli in circostanze così importanti e gravide di mistero, di essere sostenuti dalla solidarietà altrui. C’è la volontà che un bambino riceva comunque una benedizione di Dio e non gli siano sottratti dei beni che un giorno potrebbe rimpiangere. C’è la volontà che un defunto si presenti inappuntabile al giudizio temuto. C’è anche il desiderio di poter meglio assumere una nuova identità, come quella di padre o di madre o quella di vedovo o di vedova.

Non si devono interpretare queste motivazioni semplicemente come qualcosa di superficiale. Attraverso questi comportamenti, infatti, si esprime la solidarietà tra le generazioni e traspare qualcosa della comunione dei credenti.

In questi ultimi anni va sottolineata una novità: la diminuzione del numero dei battesimi dei bambini. In non pochi casi si rimanda il battesimo alla preadolescenza. C’è da approfondire questo tema, chiedendoci quali ne siano le ragioni sociali e culturali e al contrario quali fattori operino invece ancora fortemente nel senso tradizionale.

– Nella gente che si rivolge alla Chiesa nei grandi momenti della vita c’è probabilmente anche una domanda di nome. Essa concerne il modo di nascere e di morire nelle nostre società.
Se gli europei stimassero le prese di posizione della Chiesa sulla bioetica come del tutto prive di interesse o di legittimità, tali pronunciamenti non riceverebbero l’eco che hanno e non susciterebbero i contrasti che suscitano.

Tutti sentono che i problemi della bioetica non riguardano soltanto la singola persona e non possono essere lasciati solamente alla scelta individuale. Tuttavia ciascuno di noi, nella propria vita personale, non si trova a dover affrontare direttamente la maggior parte dei dilemmi della bioetica. Al contrario, ci sono questioni etiche più legate alla vita quotidiana, alle quali gli europei, personalmente e collettivamente, cercano di dare soluzioni, non senza ambiguità e colpevolezze.

Un esempio: quanti si pongono seriamente la domanda sul loro dovere di aiutare i propri genitori a invecchiare con dignità e serenità e a morire in un contesto di amore? Il quadruplicarsi del numero degli anziani nel corso degli ultimi quindici anni (e il fenomeno continua) fa sì che pressoché tutti ne siano coinvolti. La nuova realtà sociale che ne deriva è veramente una questione etica dell’intera società europea, e non solo delle singole famiglie.

– Nell’animo di coloro che chiedono alla Chiesa una presenza in occasione della nascita e della morte c’è, infine, molto probabilmente una domanda di senso. Si chiede alla tradizione cristiana un aiuto per orientarsi sul senso della vita, sulla sua non assurdità, specialmente in momenti di angoscia. La questione del senso della vita e della morte non è presente quotidianamente in maniera conscia nella esperienza di molte persone.
Essa però diventa molto viva e pressante all’insorgere di crisi esistenziali dovute, per esempio, alla nascita di un bambino handicappato, all’avvicinarsi della propria morte, alla morte di un congiunto, alle numerose morti ingiuste o incomprensibili, come quelle delle vittime della violenza o di incidenti o come la morte o il suicidio dei giovani. In queste circostanze ci si rivolge verso coloro che rappresentano la chiesa; si attende da loro, silenziosamente o ad alta voce, un orientamento, un conforto, una risposta.

Che cosa possiamo concludere dopo tutta questa descrizione? La Chiesa cattolica (ma anche le Chiese cristiane, perché non possiamo dimenticare che noi cattolici siamo solo la metà dei cristiani d’Europa) ha un suo posto nella vita quotidiana degli europei. E nelle domande complesse che si rivolgono alla Chiesa, si ritrova certamente una domanda di aiuto per realizzare la propria vita e per comprendere il mistero dell’uomo ma anche il Mistero di Dio.

Le nostre risposte

A questo punto vorrei tentare di farvi percepire un’eco dei nostri dialoghi di questi giorni così da poter meglio condividere le nostre intuizioni e i nostri suggerimenti con gli altri nostri confratelli Vescovi e anche con i nostri collaboratori preti e laici.

Per le Chiese d’Europa una tale situazione costituisce anzitutto un appello, una interpellazione a servire nello Spirito di Gesù. Come Vescovi, abbiamo la responsabilità pastorale di preparare le nostre Chiese locali ad assumere con coraggio questo servizio richiesto dalla situazione attuale.

Il Simposio ci ha ricordato che il nostro servizio nei confronti della nascita e della morte deve avere costantemente tre dimensioni: dobbiamo servire mediante la diaconia, mediante la liturgia e attraverso l’annuncio della Parola. Queste tre dimensioni, d’altronde, appartengono all’atto stesso dell’evangelizzazione. Esse tuttavia fanno unità in un soggetto vivo e operante, anche se povero e fragile: la comunità cristiana.

Nel corso dei nostri incontri abbiamo visto chiaramente che oggi il solo annuncio della Parola non è più sufficiente in Europa: ma quando mai lo è stato? L’evangelizzazione attraverso le opere è sempre stata necessaria. In Europa la nostra Chiesa sta facendo l’esperienza che provocava la lamentela di Gesù: “Se non credete alle mie parole, credete almeno alle opere che io compio” (Gv 14,11).” E ciò che il Sinodo straordinario del 1985 ha chiamato “autoevangelizzazione”.

Si tratta di essere anzitutto noi, in opere e in parole, un “vangelo”. È, infatti, nel contesto di una Chiesa vivente, delle sue parrocchie e delle sue comunità che l’europeo di oggi potrà vedere e sperimentare realmente come, anche nel contesto delle conquiste della tecnica e, in particolare, della medicina, grazie alla luce e alla forza che vengono dal Vangelo, si possa conferire maggiore umanità alla vita delle persone, alla loro nascita e alla loro morte.

In questa luce do ora voce ad alcune delle nostre riflessioni, incominciando da quella più visibile, cioè dalla diaconia.

La diaconia

La diaconia della Chiesa in Europa è chiamata ad assumere nel futuro diverse forme. Senza pretese di completezza, vorrei ricordare soltanto alcuni progetti concreti evocati nel corso dei nostri lavori.

– Abbiamo bisogno di un accompagnamento della vita nascente. A questo scopo, perché non suscitare nelle parrocchie dei gruppi che mettano insieme le donne che attendono un bambino? Sarà conveniente anche accordare particolare attenzione, come già si fa in diversi luoghi, ai bambini che non sono stati desiderati, o che sono handicappati, e ai loro genitori. In tal modo sarà possibile vedere come la dignità e il valore di un essere umano non sono legati solo alle sue capacità ma innanzitutto al fatto che, al di là di ogni condizione, egli è prezioso agli occhi di Dio. Sarà importante anche essere vicini a quelle madri che si assumono il carico di mettere al mondo il loro bambino e di educarlo anche senza il sostegno di un padre. Esprimiamo pure il vivo desiderio che, nelle nostre comunità, non si faccia alcuna differenza tra i bambini, chiunque essi siano.
– La nostra Chiesa dovrà pure prendersi cura, in diversi modi, delle ultime fasi della vita umana. Diverse iniziative potranno rendere concreto questo orientamento della Chiesa in Europa.
– Per quanto ci riguarda, intendiamo partecipare agli sforzi che vengono fatti perché un maggior numero di persone possa morire là dove è vissuto. Benchè sia questo il desiderio della maggioranza degli europei, molto pochi riescono a realizzare questa aspirazione. Ciò dipende anche dal fatto che il luogo dove si è vissuti, specialmente quando si rimane soli, non è sempre esso stesso umanizzante. Salutiamo con compiacimento il fatto che in molte Chiese locali siano già state aperte case di cure palliative, centri di accoglienza per i morenti nei quali i membri della famiglia possano restare senza limiti di tempo e nei quali, soprattutto, diventano essi stessi più capaci di accompagnare i loro parenti che stanno morendo. Come Vescovi, vorremmo sostenere esplicitamente le iniziative dei cristiani, religiosi, religiose e laici, e delle opere caritative che compongono équipes per l’accompagnamento dei morenti nelle famiglie o negli ospedali.
– Poiché nel prossimo futuro soltanto una piccola parte di persone potrà beneficiare di un simile accompagnamento, noi dovremmo partecipare alle iniziative già avviate e suscitarne sempre di nuove per umanizzare il più possibile la morte negli ospedali. Per questo, si tratterà, innanzitutto, di assicurare una formazione più approfondita per tutti coloro che sono impegnati nella pastorale ospedaliera. Per costoro, forse, l’essenziale consiste nel padroneggiare la loro stessa angoscia.di fronte alla morte e nel compiere un lavoro su se stessi alla luce del Vangelo. A tale condizione questi cristiani potranno accompagnare i morenti con maggiore verità. Nel medesimo senso, sarà utile che, in futuro, le équipes pastorali siano meglio integrate, là dove è possibile, nell’équipe medica e curante. È innanzitutto negli ospedali legati alla Chiesa che si dovrà vedere ciò che tali iniziative possono apportare alle persone che soffrono e a quelle che muoiono.
– Ci si dovrebbe egualmente preoccupare, senza troppi ritardi, di aiutare, attraverso adeguati programmi, il maggior numero di persone a sviluppare le loro capacità per l’accompagnamento dei malati e dei morenti presso la loro stessa abitazione. Tuttavia, tutti questi sforzi orientati alla lotta contro l’emarginazione della morte dalla vita quotidiana non avranno successo se non si riuscirà, innanzitutto, a cambiare efficacemente il quadro complessivo della stessa vita di ogni giorno. Da questo punto di vista, è necessaria una azione che sia attenta alle singole persone interessate, ai singoli operatori e alle loro organizzazioni. Ma, nel medesimo tempo è essenziale che si sia attenti all’intero contesto culturale e ambientale.
Ciò che è in gioco è l’intero tessuto sociale nel quale devono essere immessi i valori del Vangelo. Si rivela, per questo, indispensabile l’inserimento e l’azione dei cristiani nelle varie realtà pubbliche, sociali, assistenziali, politiche. In particolare, risuona qui l’invito per i laici, nella scia di quanto ampiamente proposto dalla Christifideles laici. Insieme, però, assumono un significato tutto particolare le iniziative che vengono assunte da istituzioni e realtà tipicamente ecclesiali. Esse devono, quindi, interrogarsi continuamente sul tipo di messaggio che veicolano con la loro presenza e la loro azione e sul tipo di mentalità che contribuiscono a creare nella Chiesa e nella società.

– Le ricchezze dei riti cristiani che circondano la vita che nasce e quella che muore appartengono esse stesse alla diaconia della Chiesa. Grazie alle scienze umane, abbiamo preso maggiore coscienza del fatto che i riti della nostra Chiesa sono, letteralmente, una benedizione per l’uomo anche nella sua vita terrena: è il caso delle esequie, della benedizione della donna che attende un bambino, del rituale della nascita. In avvenire dovremo senza dubbio prendere maggiormente in considerazione la funzione diaconale di questi riti.
– La diaconia della Chiesa nei confronti della società europea implica, infine, che prendiamo parte ai dibattiti sociali che si sviluppano attorno alla nascita e alla morte.

Ne elenchiamo alcuni:

* È opportuno sostenere la paternità responsabile. Ma perché tale paternità si possa realizzare è necessario offrire a un bambino un ambiente di amore e di stabilità. Tuttavia è nostro compito anche incoraggiare l’accoglienza di quei bambini che non sono stati direttamente voluti. La Chiesa dovrebbe, perciò, fare tutto ciò che è in suo potere per aiutare i genitori ad accogliere umanamente questi bambini. * Ci chiediamo, infine, se, come Vescovi, non sarebbe importante sostenere un dibattito per la realizzazione di un nuovo patto tra le generazioni. Analogamente a come i genitori mettono al mondo i loro figli e li introducono nella vita, anch’essi, a loro volta, dovranno essere vicini ai loro genitori quando essi sono alla fine del cammino e stanno per abbandonare questo mondo.

* Non si deve sottovalutare il fatto che in questo cammino ci si scontrerà con un “individualismo europeo” largamente diffuso. Tale individualismo non è semplicemente espressione di una particolare cattiveria dell’uomo singolo, specialmente dell’europeo, anche se alcuni elementi della nostra storia culturale e sociale hanno operato in questo senso. Ma come fenomeno di massa il cosiddetto individualismo è in buona parte il risultato innanzitutto dell’urbanizzazione, della crescente mobilità delle persone, della nostra edilizia urbana che costruisce appartamenti troppo piccoli e, infine, del fatto che uomini e donne lavorano spesso in imprese lontane dalla loro abitazione.

Un “individualismo” condizionato da tali realtà rende più difficile stabilire, come sarebbe desiderabile, questo patto tra le generazioni. I genitori anziani come potrebbero morire degnamente circondati dai loro figli quando, precedentemente, non hanno mai potuto vivere nella prossimità degli uni verso gli altri? Come si può desiderare di morire presso la propria famiglia se essa non ha uno spazio sufficiente per vivere? 0, più ancora, quando la stessa famiglia è disgregata da molto tempo? Ne consegue che noi dobbiamo essere preoccupati per i tanti matrimoni e le molte famiglie che si sciolgono in Europa non solamente per il bene dei figli ma anche per il bene delle persone anziane.

– È inoltre chiaro che l’umanizzazione della nascita e della morte comporta anche aspetti economici. Affinché si possa stabilire questo patto tra le generazioni, i membri della famiglia devono poter disporre di adeguati tempi liberi dal lavoro e di congrui compensi finanziari. Esiste già qualche piccola apertura in questo senso: in alcuni Paesi d’Europa infatti, ai contribuenti che tengono presso di sè una persona che abbia più di 70 anni vengono concesse forti riduzioni di imposta. Tali dibattiti faranno emergere che valore attribuiamo di fatto alla dignità della morte. Siamo davvero convinti che l’umanità del vivere e del morire merita di essere pagata anche a caro prezzo e con sacrifici economici da parte di tutti?
– Come Chiesa, potremmo egualmente assumere la nostra posizione nella valutazione etica della tecnicizzazione della medicina. Nel fare questo non possono essere, dimenticati gli aspetti positivi di tale evoluzione che abbiamo già ricordato all’inizio. Al contrario, è necessario esprimere il nostro rispetto e la nostra gratitudine per coloro che hanno parte di, responsabilità nelle acquisizioni tecniche della medicina, come per tutti i medici e gli operatori sanitari. Tuttavia non si può nascondere che la ricerca bioetica contemporanea conduca a certe situazioni nelle quali è sempre meno possibile tollerare un errore. In queste situazioni la responsabilità etica cresce in misura tale da venire difficilmente sopportata e da non poter più essere addossata ad un solo ricercatore. Si dovrà perciò vegliare perché la tecnica medica rimanga al servizio dell’uomo e non si verifichi mai il contrario.

La liturgia

Abbiamo accordato molta importanza al tema della diaconia per il fatto che sono grandi e diverse le attese nei confronti della nostra Chiesa in questo ambito. Esaminiamo ora alcuni suggerimenti relativi al modo in cui si potrebbe celebrare e predicare.

– Nelle nostre celebrazioni liturgiche dovremmo anzitutto fare lo sforzo di articolare in modo creativo i riti che vengono in aiuto agli uomini e i sacramenti della fede. Siamo consapevoli che né a partire dall’esperienza umana né secondo la teologia si dà opposizione tra rito e sacramento. Il rito si riferisce maggiormente all’ordine della creazione, mentre il sacramento esprime maggiormente l’ordine della salvezza.
– Per celebrare i sacramenti della fede in modo tale che in essi si dispieghi l’amore per gli esseri umani, mi permetto di richiamare alcune idee emerse nei nostri scambi, in particolare in riferimento al Battesimo. Si è innanzitutto insistito sul fatto che compete alla comunità che celebra il Battesimo la responsabilità di sviluppare nella vita del battezzato ciò che è avvenuto in lui in modo germinale attraverso il Battesimo. Ne consegue che, senza la fede vivente della comunità, la fede personale del battezzato è messa in pericolo.
Non dovrebbe dunque essere sufficiente richiedere, quale condizione per il Battesimo, una fede ferma ed esplicita da parte di coloro che richiedono il Battesimo se, nello stesso tempo, non si richiede la stessa fede da parte della comunità. L’incontro con i genitori che domandano il Battesimo per il loro figlio dovrebbe assumere una configurazione tale per cui i genitori stessi possano fare l’esperienza della buona notizia dell’amore senza condizioni di Dio nei loro confronti. Ciò implica di rinunciare a ogni forma di costrizione pastorale, di camminare con i genitori e di far loro percepire con quanto amore vengono richiesti loro almeno il desiderio della fede e i primi passi in tale direzione. Una siffatta pastorale piena di bontà, precisamente verso i semplici e i poco istruiti che difficilmente possono esprimersi a parole nell’ambito della religione, non corre il rischio di aprire la strada ad una pastorale battesimale all’insegna della facilità e della mancanza di serietà.

– Abbiamo pure discusso di suggestioni molto preziose per approfondire il significato per la fede della nostra attuale pastorale battesimale. Per rendere più chiara la relazione tra il Battesimo, il mistero pasquale e l’ingresso nel Corpo di Cristo, è stato suggerito di celebrare il Battesimo preferibilmente nel contesto della Pasqua domenicale. Tutto ciò sottolineerebbe anche con maggiore chiarezza che il Battesimo non integra di per sé nella famiglia di origine e che non è solamente un rito della nascita, ma che esso “aggiunge” (At 2,47) il battezzato a quella comunità dei fratelli e delle sorelle di Gesù, che trascende ogni famiglia.
– Dopo il Vaticano II, anche il sacramento dell’Unzione degli infermi ha conosciuto un reale rinnovamento. Si deve gioire particolarmente per il fatto che la sua celebrazione ha ritrovato posto nel contesto dell’assemblea cristiana, dove ora viene celebrato. A causa della scarsità dei presbiteri, però, – poiché il concilio di Trento riserva a loro la celebrazione di tale sacramento – esso, in alcuni paesi, è più difficilmente celebrato presso la casa del malato. Se alcuni studi storici potessero dimostrare che è possibile affidarne legittimamente la celebrazione anche ai diaconi, tale sacramento troverebbe posto più facilmente e lodevolmente nell’ambito familiare. Forse gli storici potrebbero impegnarsi a studiare tale problema con maggiore profitto per tutti.
– Un giusto apprezzamento del valore dei riti e una corretta valorizzazione della dimensione liturgica, nello stesso tempo, non possono esimersi dal compito di una puntuale analisi delle varie tradizioni, delle diverse consuetudini, dei molteplici modi espressivi delle nostre popolazioni. Spesso tutto questo – soprattutto quando ci si trova di fronte al fatto della morte e ai riti funebri ad essa connessi – affonda le sue radici in atavismi radicati e non sempre coscienti, che contraddistinguono le varie aree culturali e anche geografiche del nostro continente. Senza dubbio sono molto diversi i modi di sentire e di esprimersi al riguardo da parte dei popoli del Nord e di quelli del Sud dell’Europa. Come pure oggi, di fronte al crescente fenomeno dei diversi popoli e delle diverse razze che entrano nei nostri paesi, è richiesta una attenzione e una considerazione ancora più precisa di tale fenomeno e di tali diversità.
Nella stessa direzione, per altro, si muovono normalmente le premesse ai vari libri liturgici. Vorrei ricordare, a titolo esemplificativo, quanto si legge nelle premesse al Rito delle esequie: “Nel celebrare le esequie dei loro fratelli i cristiani intendono affermare senza reticenze la loro speranza nella vita eterna; non possono però né ignorare né disattendere eventuali diversità di concezioni o di comportamento da parte degli uomini del loro tempo o del loro paese. Si tratti quindi di tradizioni familiari, di consuetudini locali o di onoranze funebri organizzate, ascoltano volentieri quanto vi riscontrano di buono; se poi qualche particolare risultasse in contrasto con i principi cristiani, cerchino di trasformarlo, in modo che le esequie celebrate per i cristiani esprimano uno spirito in piena linea con il Vangelo” (n. 2).

L’annuncio

Tutte le riflessioni che abbiamo proposto sin qui sulla pratica evangelizzatrice della Chiesa avevano già come scopo quello di migliorare l’annuncio. Infatti tale annuncio si realizza già nella diaconia e nei riti, manifestando il suo amore sia attraverso i diversi servizi di assistenza e carità sia attraverso le azioni liturgiche della comunità cristiana.

– Trattando dell’annuncio esplicito del Vangelo due principi sono apparsi chiaramente nel corso delle discussioni del Simposio. Al termine del precedente Simposio su “secolarizzazione e evangelizzazione”, il cardinal Danneels li aveva designati come le scelte rispettivamente di Paolo e di Pietro: il dialogo all’Aeropago (At 17) e il processo del mondo (At 2). Egli esprimeva così la tensione tra la nostra solidarietà con le attese autentiche della gente e la nostra resistenza polemica a ciò che in esse è dal maligno. Infatti, tutto ciò che di vero e di buono è presente nella vita degli uomini è considerato da noi cristiani come un dono che proviene da Dio (cfr. Lumen Gentium 16).
In nome del Vangelo incoraggeremo e sosterremo queste realtà buone e vere che si trovano indubitabilmente nelle società europee di oggi. Al riguardo, pensiamo ancora una volta alle differenti realizzazioni delle tecniche mediche contemporanee o agli sforzi dei cittadini per superare l’emarginazione della morte dalla vita. Nella linea del Vangelo siamo ugualmente pronti a lasciarci istruire dalle realizzazioni positive delle nostre società: e tutto questo a reale beneficio della pratica ecclesiale. Nello stesso tempo il Vangelo richiede ugualmente da noi una resistenza profetica contro il male che si trova nella vita degli uomini e che li danneggia. Sarà importante per noi, in quanto Vescovi, trovare una forma di critica profetica delle situazioni inaccettabili della vita contemporanea, senza con questo opprimere moralmente le persone. Tale critica piuttosto deve poter essere vissuta come un’espressione di amore e di solidarietà verso di loro.

– Nel corso dei nostri scambi si è espressamente insistito sul fatto che il cuore dell’annuncio consiste nell’introdurre l’uomo in quel mistero che la vita è in sè stessa per il dono del Dio della creazione e dell’alleanza. Ogni vita umana, infatti, è la storia di un investimento di fiducia da parte di Dio sull’uomo (Dt 32,6). Uno dei più grandi servizi che la Chiesa d’Europa può rendere all’uomo di oggi consiste nell’aiutarlo a comprendere questo mistero, meglio ancora nell’insegnargli come “abitarlo”. Alla luce del mistero di Dio che crea e offre un’alleanza eterna, l’uomo d’oggi potrà allora comprendere la sua vera dignità e il senso della sua vita e, così, meglio comprendere la nascita, il fatto di morire e la morte.
– Se si allarga lo sguardo ai tempi che verranno, occorreranno molti sforzi per inculturare le verità che ci vengono dalla tradizione nel continuo mutare dei tempi, dei linguaggi, dei simboli. In che modo dobbiamo parlare dell’immortalità e della risurrezione, del purgatorio, del giudizio finale e dell’Inferno? Come restare vicini, ad esempio, a questi europei che cercano sollievo dal senso di imperfezione radicale di una vita limitata nel tempo mediante la prospettiva della reincarnazione? In proposito, la dottrina del purgatorio non costituisce forse una buona notizia di liberazione di fronte al peso schiacciante di dover esaurire in una sola vita terrena tutta la possibile perfezione umana? È l’uomo moderno, così stressato, non viene forse a distendersi venendo a sapere che nella fede e nella fiducia in Dio misericordioso può andare anche incompiuto verso la morte perché l’amore di Dio gli donerà la pace, salvandolo pienamente e purificandolo così come si purificano l’oro e l’argento e le cose più preziose? (cfr. 1 Cor 3,12-15).
– Per quanto riguarda poi il tema della vita eterna e della drammatica possibilità dell’uomo di non realizzare il fine della sua esistenza, è stata sottolineata l’importanza di annunciare la pienezza della vita con Dio in Cristo a partire dalla comunione con Dio in questa vita. Solo quando tale comunione è già sentita qui come bene autentico e primario, la promessa che essa non verrà mai meno fa sussultare di gioia indicibile il credente (cfr. 1 Pt 1,8). Tale esperienza dell’amore creatore e redentore di Dio non è lontana da noi. Quando un uomo può dire ad un altro con genuinità e verità: “È bene che tu esista”, esprime qualcosa di incondizionato che connota l’autore del dono e che “non avrà mai fine” (cfr. 1 Cor 13,8). Possiamo fare simili esperienze quando nasce un uomo, nell’amore fra l’uomo e la donna e nella gratitudine per un uomo anziano e saggio che rimane ancora a lungo tra noi e arricchisce la nostra vita (cfr. Relazione di Mons. Lehmann, p. 11). Sta alla predicazione indicare il senso profondo di tali esperienze di pienezza.
– Sarà infine necessario sviluppare una teologia della creazione che sia fin dall’inizio orientata verso Cristo come centro della storia e dell’universo e aiuti a cogliere ogni frammento dello sviluppo cosmico come punto di un disegno di alleanza che coinvolge la creatività umana nell’unico piano di salvezza. E a questo proposito che i Vescovi si sentono solidali con i teologi il cui compito appare oggi in Europa particolarmente difficile e urgente. Incoraggiamo tutti quanti, teologi, predicatori e catechisti, che si impegnano in questo compito di inculturazione della fede in Europa. Lo Spirito che insegna, corregge, anima e dirige non mancherà di sostenere gli sforzi di tutti nel proclamare ciò che “occhio non vide, ne orecchio udì ma che “Dio ha preparato per coloro che lo amano” e che è stato “rivelato per mezzo dello Spirito” (cfr. 1 Cor 2,9-10).
Prima di concludere queste riflessioni, è bene dire ancora una parola su un avvenimento politico che influenzerà le Chiese in Europa e il lavoro del CCEE. All’interno della grande Europa, il 10 gennaio 1993, nascerà una nuova Europa dei Dodici. Come Vescovi salutiamo questo sviluppo come un passo importante verso un migliore ordinamento della nostra grande famiglia europea. Ma tale passo in avanti nasconde un pericolo: quello di creare una nuova linea di demarcazione tra i Dodici e gli altri. In conseguenza della crescita della loro forza politica ed economica, i Dodici dovranno agire con una coscienza ancora più acuta della loro responsabilità. Gli altri popoli d’Europa dovranno, per parte loro, manifestare che senza di loro non c’è una realtà veramente comune. In definitiva, tutti gli europei dovranno ricordarsi che l’Europa, che ha lungamente vissuto con le ricchezze provenienti da altri continenti, avrà una forte responsabilità politica e sociale in un pianeta che cammina verso l’unità.

Le nostre Chiese locali d’Europa dovranno prendere coscienza della loro specifica responsabilità per la realizzazione di una sola Europa comune a tutti. Lo faranno tanto più quanto più si sforzeranno, come già avviene in piccolo nei nostri incontri ecumenici ed è avvenuto a Basilea, di far respirare l’Europa con i due polmoni dell’oriente e dell1Occidente, in vista di un servizio più grande all’umanità intera, perché sia manifestato a tutti il mistero della sapienza di Dio taciuta per secoli eterni, ma rivelato ora e annunciato a tutte le genti per mezzo di Gesù Cristo (cfr. Rm 16,25-27).

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