I 90 anni di padre Domenico
Sociologo, blogger, scrittore, operatore sociale, docente emerito di sociologia presso la PFTIM (Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale)…nei suoi 90 anni di vita padre Domenico Pizzuti è sempre stato una voce lucida e pungente, intellettuale che dalla periferia ha fatto giungere la sua voce al cuore delle istituzioni. Oggi dall’infermeria della Comunità del Gesù Nuovo a Napoli, continua a stimolare la comunità civile e quella ecclesiale. Come rivela questa breve intervista.
Padre Domenico una tua lettura personale di questo periodo sia della tua vita che della nostra società. Come stai vivendo questa fase dell’esistenza?
«Sono novantenne, e da un anno ed 8 mesi circa sono in cura e osservazione presso l’Infermeria della Residenza SS.Nome di Gesù, Napoli. Da circa 8 mesi e passa, al di là degli acciacchi dell’età, sto abbastanza bene pur continuando cure farmaceutiche. Per scherzo dico “Sono un ammalato vivo!” Mi tengo aggiornato tramite computer e Tv anche per la cura del blog (di cui si occupa un giovane amico a Genova) e di facebook, per cui scrivo articoli seguito da followers di Scampia, Napoli, Italia. Nella comunità di Scampia, periferia nord di Napoli, a due riprese sono vissuto e ho operato, specialmente per famiglie Rom del campo di Cupa Perillo. Apprezzo l’efficienza dell’Infermeria in cui di fatto vivo, la cura della Comunità da parte dei Superiore e la fratellanza tra i componenti. Ho pochissimi rapporti con l’esterno se non tramite i media, e gli amici di Scampia con cui mantengo relazioni specialmente tramite facebook e il blog. Vivo questo periodo della mia vita con una certa pesantezza per l’inazione, anche per due quarantene in infermeria per precauzione nei confronti della diffusione del coronavirus».
Ripensando alla tua vita da gesuita cosa vorresti sottolineare? Cosa è la Compagnia per te? C’èqualche generale che ti ha “segnato” in particolare?
«L’impegno per la fede e la giustizia che ha caratterizzato il post-Concilio, il generalato del beato Pedro Arrupe e le Congregazioni Generali 31 e 32, che ritengo si stia perdendo perché non se parla nelle nostre Comunità, sostituito da un generico accompagnamento dei poveri e da un carattere più culturale dell’impegno per la giustizia e il dialogo con altre culture e religioni. Ritengo che- al di là dell’impegno per i rifugiati, i due centri culturali ed editoriali di Aggiornamenti Sociali e la Civiltà Cattolica -, in Italia i gesuiti non abbiano assimilato e vissuto allo stesso modo i messaggi delle ultime Congregazioni Generali e l’Apostolato sociale riservato ad alcune opere».
Cosa ti ha fatto pensare l’emergenza Covid? Che cosa ha svelato della nostra società e della nostra Chiesa? Quali stimoli per ricominciare? Rischi e possibilità?
«L’emergenza Covid ha messo in evidenza le fragilità della nostra normalità sociale con le sue disuguaglianze e ingiustizie, a partire dalla sanità privatizzata; e la difficoltà della Chiesa italiana ad affrontare questa emergenza, se non con le solite ricette sacramentali; ma anche da una ripresa in mano, da parte dei cristiani, nel periodo di chiusura, di celebrazioni della Parola in chiese domestiche delle famiglie, e di forme di solidarietà volontarie per rispondere alle fasce più deboli della popolazione. Si tratta di ripartire da queste esperienze da consolidare e sviluppare in relazioni sociali rinnovate».
Sei un analista sociale. Qual è oggi l’identikit della nostra società? quali le priorità sociali?
«Sottolineo solo alcune priorità sociali dopo la pandemia: combattere le crescenti disuguaglianze economiche, sociali, culturali, religiose, di età, genere, etnie, razze e sviluppare un welfare universalistico per rispondere ai bisogni sociali della popolazione. È il modo di vivere la fede che fa giustizia. Sul piano ecclesiale: finalmente promuovere la centralità del “Popolo di Dio” nelle comunità cristiane e la promozione della donna non solo nella partecipazione crescente nelle istituzioni ecclesiastiche. Per quanto riguarda i religiosi – gesuiti compresi – si tratta di superare la riduzione della missione al modello “presbiterale” di attività, per ritrovare la ricchezza dei carismi e delle tradizioni delle rispettive famiglie religiose».