La cura della salute in Ciad e l’impegno della fondazione Magis
Il ricordo, con una certa emozione e soddisfazione, va ancora a Oumar, il primo bambino vaccinato alla nascita contro l’epatite B e salvato dalla malattia nonostante la mamma ne fosse portatrice. E’ ancora lui il simbolo dell’attività che la Fondazione Magis Ets, opera missionaria della Provincia Euro-mediterranea della Compagnia di Gesù, sta conducendo in Ciad nell’ambito del progetto “Per un sistema sanitario resiliente e di qualità nella terra di Toumai – AID 12590/09/8 SiSaTou”, che viene portato avanti in particolare nelle sedi ospedaliere ‘Le Bon Samaritain’ della capitale N’Djamena – l’ospedale è anche complesso universitario – e della città di Goundi, nella Regione di Mandoul, a 700 km dalla capitale, e nell’altro presidio sanitario ‘Notre Dame des Apôtres’, sempre a N’Djamena.
Il progetto, finanziato in gran parte con il contributo dell’Aics, l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo, ha l’obiettivo generale di “contribuire alla riduzione della mortalità prematura causata delle malattie trasmissibili e non trasmissibili in Ciad, attraverso l’accesso a una salute di qualità e la lotta alla malnutrizione infantile”. Quello specifico, invece, è che così “la popolazione che vive nell’area urbana e periurbana di N’Djamena e nella Regione di Mandoul ha la possibilità di accedere a strutture sanitarie migliorate in termini di qualità e servizio”.
Tutto questo in un Paese, il Ciad, che è uno dei più poveri del mondo, caratterizzato da una forte instabilità politica (è ancora delle scorse settimane un tentativo di colpo di Stato), terzultimo nell’indice di sviluppo umano dello Human Development Report dell’UNDP, e con un’aspettativa di vita di 54,2 anni. Tra le campagne in atto nel progetto gestito dal Magis, per quanto riguarda la prevenzione e la diagnosi precoce delle principali malattie trasmissibili e non che colpiscono la popolazione, la lotta contro l’HIV e la sua trasmissione materno-infantile, l’epatite B, il cancro, la malnutrizione acuta.
“Quello della sieropositività all’epatite B, a causa dello stigma molto forte, è ancora un grande problema in Ciad – racconta la project manager per la Fondazione Magis, Sabrina Atturo, cooperante internazionale -. La più grande sfida è lo screening, la maggior parte dei giovani e soprattutto degli uomini mostrano renitenza a conoscere il loro status sierologico. Con il progetto vogliamo contribuire a ridurre la trasmissione attraverso la ‘porta di entrata verticale madre-bambino’: la mamma è positiva, partorisce e trasmette automaticamente durante il parto il virus al bambino. Questa cosa, che spesso viene data come una fatalità, in realtà può essere evitata, attraverso una presa in carico economica e psicologica della mamma incinta, la si mette sotto trattamento antiretrovirale per abbassare la carica virale e ridurre il rischio di trasmissione”. “Questa è tutta un’attività che stiamo facendo – prosegue Atturo -. E una mamma mi diceva ’Ah, grazie per avermi seguito durante la gravidanza, mi avete spiegato cosa significa essere portatrice, cosa posso fare e cosa non posso fare. Ma soprattutto mi avete ricordato che sono portatrice però posso vivere degnamente prendendo con regolarità i farmaci. Ho una forte responsabilità su tutta la mia famiglia”. E in questo modo c’è tutta una moltiplicazione degli effetti positivi che vanno al di là dell’attività stessa prevista nel progetto.
Quello sanitario è uno dei campi in cui le opere dei Gesuiti sono attive in Ciad: gli altri sono quello agricolo, con gli ‘orti comunitari’ e le ‘banche dei cereali’ nel Vicariato di Mongo, di cui è stato pioniere padre Franco Martellozzo, e quello educativo, tradizionale ‘specialità della Compagnia di Gesù. Il primo ospedale è stato creato da padre Angelo Gherardi a Goundi, allora un poverissimo villaggio nella savana a sud del Paese, ben presto diventato un modello sanitario riconosciuto a livello internazionale, con due premi conferiti dall’Oms, col principio di creare attorno all’area dell’ospedale dei “centri rurali di salute” – ora sono in tutto dodici – come luoghi di primo approccio, dove infermieri provvedono alla somministrazione di farmaci per le esigenze primarie e le malattie di base (malaria, epatite, gravidanze, ecc.) e solo quando questa prima risposta non è sufficiente si invia il paziente all’ospedale.
I problemi e le difficoltà per la gestione sanitaria in Ciad, però restano tanti. “Ci sono pochi medici, pochi infermieri rispetto al numero della popolazione – osserva Sabrina Atturo -. Ma c’è anche il problema dei farmaci, non c’è un’azienda che produce farmaci in loco, né apparecchiature, quindi tutto deve essere importato dall’estero a costi proibitivi. Ci sono pochi ingegneri biomedicali, per cui se si rompe un apparecchio devi comunque aspettare la persona e/o il ricambio che arriva dal Marocco, dall’Egitto, dall’Italia, e questo significa mesi e mesi di attesa”. Inoltre, in Ciad “la salute non è ancora ancora un diritto, si paga tutto. Anche in pronto soccorso devi pagarti la flebo, devi pagarti la siringa, devi pagare tutto”.
A questo si aggiungono le molte criticità di contesto, che aprono anche delle incognite per il futuro, come appunto l’instabilità politica, con le forze armate francesi che lasceranno il Ciad, una presenza russa che avanza e una presenza cinese sempre più radicata sul piano economico. O le recenti avvisaglie di un’avanzata del terrorismo jihadista, con Boko Haram che finora, nel Paese, era relegato al solo Lago Ciad. O ancora, il gran numero di rifugiati dal Sudan, in fuga dalla guerra: una presenza massiccia che spinge la popolazione interna a spostarsi a sua volta verso ovest, verso la capitale. Sul piano sociale, i tanti giovani senza lavoro, che riempiono le periferie delle città senza sapere come sbarcare il lunario, e per superare i morsi della fame si dànno all’alcol.
Non certo ultimi, infine, i cambiamenti climatici – l’ospedale Le Bon Samaritain a N’Djamena l’anno scorso è stato completamente inondato -, il cui impatto in Ciad è particolarmente forte e difficile da gestire. “A parte le inondazioni causate dalla pioggia che arriva dal sud del Paese, a N’Djamena piove sempre di meno, la siccità avanza, il deserto avanza, è evidente – spiega ancora Sabrina Atturo -. Il periodo secco è sempre più lungo, e senz’acqua non si vive. Lo scorso anno durante il periodo di aprile-maggio-giugno (i mesi più caldi dell’anno) migliaia di persone sono morte disidratate o per problemi cardiovascolari a causa del forte calore. Quest’anno le previsioni sono altrettanto pesanti”.
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