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C’è posto per la speranza in carcere?

Una riflessione di p. Silvio Alaimo, che da 20 anni svolge il suo ministero nelle carceri di Trieste.

È un pensiero comune, diffuso, popolare, secondo il quale le dure condizioni di vita in carcere sono inevitabili, anzi, giuste, poiché parte integrante della pena che deve colpire chi si è macchiato di un crimine. È una idea di riparazione come contrappasso: tu hai fatto soffrire e tu devi soffrire nello stesso modo, anzi, di più. Solo così la vittima può avere “soddisfazione” per il torto subito. Questo principio, che poco si differenzia da quello della “vendetta”, si accompagna a un altro mantra giudiziario: la certezza della pena. Tradotto: il reo deve pagare fino in fondo e soffrire sino all’ultimo giorno previsto dalla condanna. Niente sconti, niente opportunità alternative.

Non finisco mai di stupirmi (e un poco di indignarmi) quando mi accorgo che questa visione si fonda su una prospettiva del tutto capovolta della realtà: sia rispetto allo Stato e al suo diritto di condannare e punire, sia rispetto alle persone da affliggere e, da ultimo, ma non meno importante almeno per me, rispetto alle indicazioni di una vita cristiana. Fin dai primi anni della mia esperienza di cappellano nel carcere di Trieste, durante i colloqui con i detenuti, ricevevo e ricevo sempre professioni di innocenza. Tutti, ma proprio tutti, si proclamano tali. Inizialmente non sapevo come interpretare queste convinzioni. Poi, col tempo, entrando in profondità nelle storie tragiche di quelle persone che non avevano nulla, ho capito il loro stupore per tanta durezza, freddezza, inumanità, che non possono essere inflitte per nessun tipo di errore commesso. “Sono innocente”, appunto. In quell’affermare la loro innocenza, ho colto anche una legittima aspirazione: non volevano nascondermi le colpe, il loro era il racconto di una speranza. Negli anni ho fatto mia questa prospettiva ribaltata, del tutto opposta a quella del mondo corrente e della macchina giudiziaria: una prospettiva che riconosco come assolutamente cristiana. Chi ha commesso un errore ed è caduto deve potersi rialzare, deve trovare una mano che lo aiuti a risollevarsi. Se ha provocato sofferenza, non bisogna dimenticare che il dolore appartiene anche a lui: il cadere, i fallimenti, non sono mai privi di sofferenza e quasi sempre sono il culmine di una storia tormentata. Prolungare e istituzionalizzare tale condizione di sofferenza, può giovare a qualcuno realmente? O diventa crudele tortura verso una persona che ha il diritto di continuare il suo cammino, di non perdere fiducia in sé e speranza nel futuro, di vivere con dignità la vita che ha ricevuto in dono?

Tra i tanti interventi di Papa Francesco sulla vita delle persone recluse mi piace ricordare questo: «Le carceri abbiano sempre una finestra e un orizzonte… nessuno può cambiare la propria vita se non vede un orizzonte». Quanta sofferenza, per me, nel constatare che queste finestre mancano, che sono murate dall’assurdo garbuglio di una selva di leggi, lacci e lacciuoli. Manca un orizzonte, per guardare oltre, per non smettere di vivere. Quando varco la soglia del carcere sono consapevole di entrare in un ambiente di confinamento e contenimento, finalizzato a separare, dividere, isolare, allontanare. Vi incontro persone abbandonate, dimenticate, spesso alienate in una condizione di assenza di progetto, di prospettiva. Sono rinchiuse in un non-spazio, un non- tempo, non sanno più nulla di sé né di cosa li aspetti, non sanno più nulla delle loro famiglie, delle loro origini, di quel mondo da cui provengono dove già era preclusa la speranza. Entrano in un contenitore che li affligge, dopo aver vissuto in altri contenitori, quelli delle periferie, che sono spesso vere e proprie carceri a cielo aperto. Ancora, con le parole di Papa Francesco, è possibile descrivere la negatività dell’Istituto carcerario: “cultura dello scarto”, “spazi per rinchiudere nell’oblio”, “luoghi di spersonalizzazione”. A cosa serve una realtà così? A chi giova? Cosa porta alla società l’afflizione delle persone?

Molte persone che incontro nei miei colloqui hanno perso la speranza, se ne avevano una all’inizio della loro vita: spesso si nasce segnati e predestinati.

lo non voglio perdere la speranza, ma fatico a dare loro una risposta, sento il peso della loro richiesta di aiuto, della loro necessità di affidamento, di credere in qualcosa, in qualcuno. Le carico su di me, consapevole della enormità del compito e della impossibilità di affrontare da solo la sfida. Quelle mura però vanno abbattute, perché impediscono la relazione e producono abbandono. Quelle finestre vanno riaperte sul mondo, affinché diventino possibili spazi relazionali di vita vera. Bisogna fare in modo che chi vive quell’esperienza, alla fine del percorso, non si ritrovi nello stesso tragico punto da cui era partito. 

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