Livio Passalacqua
Pietà
Pietàdime! “Pietà di me!” Lo scrivo con il punto esclamativo. Ho grande bisogno di sentirmi amato, comunque, nonostante le mie impresentabilità. Eppure, subito dopo, aggiungo, tra le parentesi, un punto interrogativo. Mi sembra di insultare Dio nel mio tentativo di convincerlo a perdonare, a perdonarmi. Come convincere l’acqua ad essere acqua, il sole ad essere sole, l’aria a lasciarsi respirare. Che se Lui è Amore, come faccio ad invitarlo ad essere ancora Amore? Se è comprensione, compassione e trepidazione sarò io a ricordarglielo?
Il perdono di Dio non è un suo problema. Per Lui è un problema risolto da sempre. Ci aveva perdonati prima di crearci. Ci perdona ancor prima che noi manchiamo. Perdona mentre facciamo il male. Avrebbe condonato tutto anche se il Suo Verbo non si fosse incarnato, sacrificato in croce e risorto. Prima che io mi presenti per la riconciliazione ad un rappresentante della Comunità dei credenti, mi ha già perdonato. Se non chiedo perdono, se non mi perdono, se non lo credo capace di perdono il suo perdono è là, fermo in Posta, in attesa che io mi convinca a ritirarlo. Non si sente offeso da nessun insulto, non si delude per nessuna ingratitudine, non si sente sminuito da nessuna offesa. Non cerca riparazione, punizione, giustizia per quanto lo riguarda. Il Padre è solo preoccupato per noi, per quanto operiamo distruttivamente nei nostri riguardi. Le acque di un diluvio non spengono il suo Amore. L’Amore non si ricorda di sé. Tenuto sul pianerottolo, maternamente aspetta e delicatamente bussa. L’Amore per sé non chiede niente. Chiede solo di dare. Non abbiamo da convincerlo ad avere pietà perché Lui è Pietà.
Il problema siamo noi che non ce ne siamo accorti. Quando chiedo: “Signore, pietà”, chiedo di credere a questa Pietà, di accoglierla, di sapere che il perdono c’è e basta aprire la porta per riceverlo, e tenere compagnia a Lui accordandomi questo perdono. E ammettere che il Suo cuore è più grande della mia vigliaccheria. Aprirsi alla Sua ansia per noi, accorgerci del Suo folle inseguimento perché ci realizziamo, evitiamo il fallimento e raggiungiamo il Suo stato felice. Dire: “Signore pietà”, significa chiedergli di imparare a credere alla Sua pietà, di lasciar entrare la Sua misericordia, di confidare in Lui e non nella nostra giustizia o riparazione. Qualcuno dirà: “Con questi criteri, faciloneria e superficialità nessuno si preoccuperà più di osservare un minimo di Comandamenti, ognuno imparerà a fare il male con disinvoltura, tanto tutto viene perdonato, ognuno confiderà in una grazia a buon mercato dove il Paradiso ti vien tirato dietro, quasi scontato, una svendita della quale tutti possono avvalersi senza fatica, anche al solo titolo del “non si sa mai”. Risposta possibile.
Quando senti che qualcuno ti ama veramente provi tenerezza per lui e nasce il “timore” di recargli dispiacere. Ferma restando la nostra facoltà di essere malvagi e ingrati, l’ultima cosa che vorremmo fare o essere sarebbe quella di deluderlo e perderlo, di perdere la relazione privilegiata con lui e trasformarla in un assolo di egoismo, interesse e solitudine. “Voglio essere dei vostri”, aveva detto il giovanotto alla Famiglia mafiosa. “Devi darci una prova che fai sul serio e devi darci una garanzia che non sgarrerai. Portaci il cuore di tua madre”. Va, uccide la madre e nasconde il cadavere dopo averle strappato il cuore, ripone quest’ultimo in un recipiente e corre verso la sede mafiosa. Nella notte inciampa e cade. Il cuore materno esce dal contenitore, rotola tra l’erba e manda una voce: “Ti sei fatto male, figlio?”. L’ultima cosa che vorremmo fare o essere sarebbe quella di deluderlo e perderlo, di perdere la relazione privilegiata con Dio.
Pubblichiamo gli articoli di Livio Passalacqua SJ per gentile concessione del settimanale diocesano Vita Trentina