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Seguendo le orme di Sant’Ignazio

Le preferenze apostoliche universali dei gesuiti

Sul sito Percorsi di Terre l’intervista a Mariano Iacobellis, gesuita che ha accompagnato più volte i giovani su questo itinerario, a cura di Stefano Femminis

Difficile fare statistiche, e comunque entrare nel “guinness dei primati” non è certo il suo obiettivo, ma si può almeno dire che Mariano Iacobellis, classe 1982, napoletano, sia tra gli italiani che ha percorso più volte il Cammino di sant’Ignazio, fondatore dell’ordine religioso a cui lui appartiene da sei anni: i gesuiti. Per una decina di volte, Mariano ha camminato lungo i 660 chilometri che in Spagna uniscono Loyola e Barcellona, passando da Tudela e Saragozza, ovvero l’itinerario che Ignazio percorse nel 1522, vivendo durante il cammino una profonda esperienza di conversione. Abbiamo chiesto a Iacobellis, che in diverse occasioni ha fatto il Cammino insieme a giovani universitari, di raccontarci qualcosa di questo percorso ancora poco conosciuto in Italia.

«Per i giovani che accompagno – spiega – il Cammino di Ignazio è anzitutto l’occasione per “rileggere” il percorso che fanno durante l’anno precedente, per riflettere sulle scelte fondamentali della loro vita e prendere delle decisioni. Per me è molto bello camminare con persone motivate, abituate a coltivare la propria interiorità, persone che in quache modo si sono già messe in cammino molto prima di arrivare in Spagna… Hanno il desiderio di silenzio, di ascoltarsi fino in fondo. Certo, poi i momenti difficili non mancano…


Ad esempio?

Anzitutto le difficoltà classiche di tutti cammini: il caldo, i piedi che fanno male, i tratti senza nemmeno un punto di ristoro, la necessità di dividere una pesca in cinque persone, insomma tutto quello che impone un’essenzialità a cui non siamo più abituati. Ma ho in mente anche qualche episodio specifico. Ad esempio, un anno ci siamo persi durante una camminata notturna. Proponiamo sempre questa esperienza nella tappa che arriva nei pressi di Javier, più o meno a metà percorso. Il senso è quello di attraversare la notte, il buio che magari abbiamo anche dentro di noi, per poi arrivare all’alba. Ci si aiuta con le torce, ma è un’esperienza di affidamento e di cammino condiviso. Ebbene, un anno, in un tratto dentro a un bosco, non riuscivamo più a trovare la strada. Siamo finiti nei rovi, alcuni avevano le gambe sanguinanti. A un certo punto ci siamo ritrovati a calarci da un dirupo piuttosto pericoloso facendo una catena umana. Ma la sensazione che provi quando inizia a esserci un po’ di luce, e quella luce ti aiuta a ritrovare la strada, e poi spunta il sole… è indescrivibile!

Quali sono le tappe fondamentali del Cammino di Ignazio?

A parte, naturalmente, l’inizio e la fine, rispettivamente a Loyola, dove Ignazio nacque, e Barcellona, dove per alcuni mesi predicò vivendo da mendicante, prima di partire per Venezia, credo che i due momenti chiave siano Pamplona, nei Paesi baschi, e Montserrat, dove c’è – e c’era già ai tempi di Ignazio – un antichissimo santuario mariano.

A Pamplona Ignazio, che ricordiamo era un soldato desideroso di vivere secondo l’ideale cavalleresco, in una tragica battaglia contro i francesi venne colpito da una palla di cannone. Lì si interruppe la sua carriera, diciamo così, e Ignazio dovette fare i conti con il fallimento, con la fine dei suoi sogni. Allora, per chi fa il Cammino guidato dai gesuiti, questa tappa diventa quella in cui si è invitati a riconoscere la propria ferita, ciò che crea sofferenza o fatica. Però la ferita non è il luogo in cui il pellegrinaggio finisce, ma il luogo in cui può cominciare qualcos’altro. Da lì si cammina verso Monserrat, dove Ignazio consegnò a Dio la sua spada e i suoi abiti da cavaliere, e la vicina Manresa, dove egli visse quasi un anno in una grotta, fece definitivamente la sua scelta religiosa e scrisse le prime bozze degli Esercizi spirituali: queste due tappe sono quelle del “desiderio”, il luogo in cui la ferita apre nella tua vita la possibilità di qualcosa di nuovo. La ferita diventa allora una feritoia, e quello che tu vivi come un fallimento può diventare qualcosa che nella tua vita porta luce.


Un’esperienza di questo tipo richiede una grande disponibilità a mettersi in gioco. Non pensi ci sia invece il rischio che, con il diffondersi del fenomeno dei cammini, prevalga una certa superficialità?

Indubbiamente il Cammino di Ignazio, soprattutto se fatto in questo modo, prevede un percorso più profondo rispetto, ad esempio, al Cammino di Santiago. Io sostengo però che chiunque si mette in cammino, su qualunque itinerario, è alla ricerca di qualcosa, quindi non vedo negativamente il fatto che tanta gente faccia questa esperienza, fosse anche per moda o per seguire la massa. È il segnale, come minimo, del bisogno di rallentare in una società che ci impone ritmi stressanti. E devo dire che non condivido nemmeno le polemiche dei “veterani” che hanno persino coniato il termine dispregiativo di “turigrino”, come se fare un cammino fosse qualcosa per pochi eletti.

Detto questo, è vero che il cammino è una cosa che va preparata.
Anzitutto negli aspetti pratici, e in questo senso devo dire che per il Cammino di Ignazio ho trovato estremamente utile la Guida di Terre di Mezzo, visto che si tratta di un percorso ancora non segnalato in modo perfetto, ci sono lunghi tratti senza possibilità di acquistare cibo o trovare acqua, ed è bene essere informati. Ma poi c’è un discorso ancora più profondo. Il rischio è quello di prendere solo una boccata di ossigeno per poi tornare alla vita di tutti i giorni e riprendere gli stessi ritmi e le stesse dinamiche. Un’esperienza può dirsi tale solo quando la rileggo, la riesco a integrare nella mia vita e in qualche modo cambia la mia vita. Altrimenti quell’esperienza non è veramente vissuta. E mi limiterò ad accumularne una dopo l’altra. In questo senso il cammino, qualunque cammino, è un modo fisico, reale, vero con cui imparo a conoscere me stesso, a capire chi sono. E può diventare un’esperienza fondamentale se riesco a portarla anche in minima parte nella mia vita di tutti i giorni.


A proposito di superficialità e di consapevolezza, come vivi, da camminatore, il rapporto con le nuove tecnologie?

L’uso della tecnologia lo capisco nella misura in cui serve a far partecipare, anche se a distanza, chi non ha la possibilità di fare il cammino, magari per problemi fisici. Allora postare una bella foto ogni giorno, se è il caso con una riflessione, può avere un senso. In questo senso è davvero bello avere una tecnologia che ti permette di far “camminare” altre persone. Che poi magari ti scrivono, ti chiedono una preghiera, ti raccontano qualcosa di sé. Poi, quando accompagno i ragazzi, c’è un motivo pratico: via social o whatsapp tranquillizzo i genitori.

Ma se dovessi decidere solo per me, partirei senza niente. Sono fautore di un’esperienza integrale, che coinvolga tutta la persona: testa, cuore, volontà, piedi… E la tecnologia inevitabilmente distrae. Capita spesso, sui cammini, di vedere gente con le cuffiette, sempre a fare foto e selfie, a geolocalizzarsi. E magari non augura “buen camino” a quelli che incontra. La sera arrivi nell’ostello e la prima cosa che cerchi è il wifi, devi controllare subito il meteo di domani, la pendenza… E così ti perdi la possibilità di condividere con gli altri pellegrini. Abbiamo tutti un’ansia di controllo, ma il pellegrino è quello che ringrazia, si affida. Non a caso in tanti ostelli lungo il Cammino di Santiago c’è un cartello: “Il turista paga, il pellegrino ringrazia”.

L’ultima domanda è per il Mariano gesuita: che cosa significa, per chi ha fatto la tua scelta, ripercorrere il cammino del fondatore?

Anzitutto devo dire che la mia scelta di entrare nella Compagnia di Gesù è arrivata proprio alla fine di un Cammino di sant’Ignazio, chiaramente dopo un periodo precedente di preparazione. Non dimenticherò mai quel momento, nel tratto fra Montserrat a Manresa, con il panorama meraviglioso in cui vedi tutta la vallata davanti a te.

E poi, ma questo vale anche per chi non è gesuita, credo che camminare con Ignazio sia camminare con un uomo che è molto vicino a noi oggi. Più si legge la sua autobiografia più lo si sperimenta come un uomo che ha vissuto tanti fallimenti, che ha iniziato molte cose che non sono andate bene, e che però è sempre ripartito. La ferita non è mai stata l’ultima parola.
 

Qui l’intervista di Stefano Femminis

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