Antonio Spadaro: “Papa Francesco, un pontificato nel segno di Ignazio”

La fiamma è forse l’immagine che meglio rende il senso dell’ispirazione di Francesco. «Noi gesuiti – ha scritto p. Jorge Mario Bergoglio da giovane – sappiamo bene che il fuoco della maggior gloria di Dio ci pervade avvolgendoci in una fiamma interiore, che ci concentra e ci espande, ci ingrandisce e ci rimpicciolisce». A volte il suo stesso corpo, quando poteva, viveva una torsione che lo faceva tendere, estroflettere, davanti a quello che per lui è sempre stato «il popolo di Dio in cammino». Per questo Francesco si è impastato nella storia, nelle vicende del mondo, vi si è torto, infiammandosi, a volte facendo disperare chi tendeva a normalizzarlo. C’è una fiamma che lo ha sempre mosso dall’interno: la «pace dell’inquietudine», che è l’ossimoro per eccellenza dei gesuiti, frutto del «discernimento». Questa è la password ignaziana per eccellenza, che significa cogliere interiormente la voce di Dio, riconoscere per istinto la sua presenza nel mondo, anche lì dove tutto ci dice che dovrebbe essere altrove. È tipicamente gesuitico non considerare nulla di ciò che è umano come alieno dal divino: «cercare e trovare Dio in tutte le cose» era il motto di sant’Ignazio. Questo ha reso Francesco aperto, curioso, dialettico.
E così Francesco non ha aperto, ma spalancato le porte della Chiesa a todos, todos, todos. Non perché la gente restasse dentro, come lui più volte ha detto, ma perché il Signore fosse in grado di uscire, andando per strada. E la strada – altra immagine fortemente gesuitica e dello stesso Ignazio, che si definì «il pellegrino» – per Bergoglio è stata sempre accidentata. Non ha mai contemplato strade appianate. Per lui meglio cadere e pure ferirsi piuttosto che starsene fermi al riparo a balconear, a guardare la vita dal balcone.
In questo senso ha sempre avuto una visione «apostolica» e non semplicemente «pastorale». Il gesuita sa che il suo compito non è quello di pascolare il gregge, tosare le pecore e pettinarle, ma quello di andare alla ricerca della pecora perduta. Con la realistica precisazione bergogliana che ormai nel recinto c’è rimasta una pecora, mentre sembra che le altre novantanove se ne siano uscite. La sua, dunque, è sempre stata una Chiesa in uscita.
L’ho visto molto spesso direttamente in azione nei suoi 12 anni di pontificato. Nei contesti pubblici ho partecipato come membro ordinario di sua nomina alle 6 Assemblee del Sinodo dei Vescovi che lui ha indetto, e ricordo lo sconcerto iniziale per la possibilità che diede di parlare apertamente. Un usciere mi disse che non aveva mai visto un confronto così schietto tra i vescovi precedentemente, e ho ricordato le parole del p. Adolfo Nicolás, che una volta mi aveva espresso una certa frustrazione vissuta in alcune assemblee precedenti. Ho seguito da vicino Francesco in 45 viaggi apostolici in giro per il mondo testimoniando tutti gli incontri con i gesuiti con i quali voleva sempre parlare con schiettezza, rispondendo alle loro domande in incontri di comunità. Ma ho anche vissuto lunghe sessioni di intervista in camera sua almeno quattro volte a partire dal 2013 quando lo intervistai per le riviste della Compagnia nel mondo ad appena tre mesi dalla sua elezione, oltre a vederlo con l’occhio di un filmaker per realizzare per Netflix la serie «Stories of a Generation with Pope Francis» e «Papa Francesco: come Dio comanda» per Sky Atlantic. Ho curato la pubblicazione dei suoi scritti da gesuita e poi da Arcivescovo di Buenos Aires. Il mio occhio da dovuto allenarsi: allontanarsi per ammirare e avvicinarsi per capire e «sentire» nel senso ignaziano. È stato un esercizio destabilizzante ma profondamente «consolante».
Francesco ha predicato una Chiesa inclusiva; per questo – a proposito di interviste – si è estroflesso comunicativamente con giornalisti di testate laiche più che con quelle religiose; per questo ha desiderato parlare con chiunque, anche con persone e leader che altri hanno sempre tenuto distanti. Politici e religiosi: da Min Aung Hlaing, capo dell’esercito del Myanmar, responsabile delle operazioni contro i suoi amati rohingya, al patriarca russo Kirill, al quale non ha risparmiato dure critiche ma al quale ha sempre tenuta aperta la porta. Per questo Bergoglio ha postulato un pensiero aperto e «incompleto». Bisogna uscire dagli schemi (Yalta per lui era uno di questi), dai ragionamenti logici stringenti. Occorre debordar, uscire dai bordi, «debordare», spinti dalla genialità dello spirito e non dal rigore dell’idea. Da giovane gesuita scrisse che non dobbiamo guardare la storia «con un distacco scientifico improntato a curiosità per le cose accadute, o desideroso d’imporre un’ideologia predefinita». Parlava della storia dei gesuiti, ma lo stesso vale per la storia in generale.
Francesco non ha mai voluto fare piani quinquennali ispirati da idee o ideologie, né cedere a utopie. Si è impegnato anche dal punto di vista organizzativo, certo, ma sempre pronto all’improvvisazione perché spinto dalla sua preghiera e dalla «consolazione», cioè dalla percezione della volontà di Dio che dà pace all’anima. Come quando, ad esempio, si chinò per baciare le scarpe dei leader del Sud Sudan giunti in Vaticano per tentare la pace. Mi disse che, appena entrò nella stanza dove si trovavano, sentì una spinta interiore fortissima a farlo. È solamente un esempio, ma molto indicativo di un modo di agire. Il suo modello è Pietro Favre, uno dei primi compagni di Ignazio di Loyola che era rimasto beato per secoli e che Bergoglio ha fatto santo. Era molto amato da Michel de Certeau, un grande gesuita a suo modo «anomalo».
L’anomalia è stata un’altra forma della gesuiticità di Francesco. Il suo rapporto con l’ordine in passato è stato complicato, anomalo. I suoi scritti, che sostanzialmente dicono quello che nel suo pontificato va dicendo oggi, sono persino stati bruciati in falò. La sua cifra pastorale è stata fraintesa o osteggiata. Si deve alla sapienza di un padre generale quale Adolfo Nicolàs la riconnessione profonda dei fili tra Bergoglio e il suo ordine. E in questo La Civiltà Cattolica per vari anni ha svolto un ruolo chiaro. Durante la Congregazione generale dell’ordine, dopo le dimissioni di Nicolàs, è apparso un certo spiazzamento dell’ordine davanti alla profezia bergogliana, ma anche il desiderio di cercare una postura corretta, secondo lo spirito delle sue Costituzioni. Bergoglio è sempre rimasto, in un modo o nell’altro, una patata bollente. E lui non ha mai perso l’occasione di dichiararsi figlio della Compagnia di Gesù, e di curare un dialogo profondo con i gesuiti che, come ricordavo, ha avuto una singolare espressione in conversazioni private durante i viaggi apostolici. La loro trascrizione – che il papa mi ha permesso di volta in volta – compone una sorta di backstage del pontificato.
La strada di Francesco è stata anche il mondo intero. Francesco lo ha girato in lungo e in largo, lui che non ha mai amato viaggiare. Ma ha sentito che doveva farlo sì, per confermare la fede del popolo cattolico, ma anche per toccare le ferite aperte di questo mondo. Basti pensare a Repubblica Centrafricana e Iraq, per fare solamente die esempi. Non si tocca col pensiero, ma con la mano. La Chiesa è «ospedale da campo dopo una battaglia», mi disse nella prima intervista che gli feci nel 2013. Come una madre non va a trovare i suoi figli in una «cassa di vetro», imponendosi quando lo si voleva obbligare in una papamobile tutta chiusa o addirittura blindata. Ha viaggiato da gesuita, che proverbialmente considera il biglietto dell’aereo o del treno come la vera chiave di casa.
Sempre da giovane, Bergoglio scrisse che lo sguardo del gesuita «percorre cortili scorgendo praterie, guarda frammenti ma contempla forme». Dal suo piccolo studio di Santa Marta ha avuto l’orizzonte del mondo e da lì ha sempre osservato i frammenti connettendoli in modo da capire le forme, come nel caso della «guerra mondiale a pezzi», già amaramente profetizzata nel 2014. Ha sempre detestato il termine «geopolitica» che gli richiamava il Risiko, ma ha sempre amato la «diplomazia». E lui aggiungeva: «delle ginocchia». Perché riteneva il dialogo politico (e soprattutto quello multilaterale) necessario e, per un credente, una sorta di luogo sacro di preghiera e contemplazione. E in questo era mosso dal motto gesuitico contemplativus in actione. Questo è stato papa Francesco, infatti, un contemplativo nell’azione.