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Astalli: Sacro Mediterraneo, canti e suoni per il dialogo

Il sacro e il profano, il mito e la natura si intrecciano nelle storie di donne e uomini vissuti da sempre davanti al mare, esperti di venti e custodi di un sapere antico che affonda le sue radici nelle acque del Mediterraneo: il concerto di Natale del Centro Astalli, il 13 dicembre, a Sant’Andrea al Quirinale è stato dedicato al Mediterraneo. Il multistrumentista Stefano Saletti e la cantante Barbara Eramo, insieme al Baobab ensemble, hanno presentato un percorso di musica e parole che partito dal Sud Italia ha toccato le sponde degli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Canti dal Mare nostrum

Come antichi naviganti, gli spettatori sono stati trasportati in un immaginario viaggio nel tempo alla ricerca degli elementi che uniscono e differenziano i popoli che si affacciano sul Mare Nostrum.

Cantigas spagnole di pellegrinaggio e musica della diaspora sefardita, canti in Sabir l’antica lingua del Mediterraneo e i makam del Medio Oriente. E poi gli strumenti del mare nostrum, l’oud, il bouzouki, la darbouka e il bendir, chiamati a descrivere in musica testi in sabir, arabo, ebraico, portoghese, azero, latino.

Nel suo saluto a rifugiati, volontari, operatori, amici, membri delle istituzioni, padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, ha ricordato che siamo alla fine di «un anno difficile sul piano delle migrazioni, perché siamo ormai a quota 114 milioni di sfollati, un numero in crescita vertiginosa (in Italia sono sbarcate oltre 150 mila persone)».

Ripamonti: un anno difficile

È stato difficile anche perché continua «la poca visione dell’Europa su un tema così centrale come è quello delle migrazioni che andrebbe sottratto alla contrapposizione politica anche in vista delle prossime elezioni, per restituirlo a una riflessione più serena e progettuale». Ripamonti ha ricordato la riflessione dell’alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, in una lettera al Corriere della sera: «Molti Stati stanno tagliando gli aiuti umanitari e i fondi per lo sviluppo. E piuttosto che cercare di affrontare le cause profonde che spingono alla fuga, sentiamo discorsi duri e intransigenti sull’allontanamento degli stranieri, sul rendere più difficile la richiesta di asilo e sullo scaricare la responsabilità su altri». È stato un anno difficile anche per «l’irrigidimento legislativo rispetto al tema dell’immigrazione a cui abbiamo assistito nel nostro Paese, con ripetuti decreti legge. L’intento è stato e è dissuasorio e securitario, il risultato è quello di rendere più difficile l’accesso al territorio e al diritto d’asilo, con conseguente aumento della precarietà di molte persone, sempre più vulnerabili». Papa Francesco lo diceva l’11 dicembre, parlando ai Prefetti italiani: «A voi è dato l’arduo compito di organizzare sul territorio una loro [dei migranti] accoglienza ordinata, basata sull’integrazione e sul costruttivo inserimento nel tessuto locale… Dobbiamo stare attenti. I migranti vanno ricevuti, accompagnati, promossi e integrati. Se non c’è questo, c’è pericolo; se non c’è questo cammino verso l’integrazione, c’è pericolo».

La via del Natale

Cosa fare allora? «Il Natale credo ci indichi la via, quella della condivisione, della fraternità, anche le musiche che sentiremo questa sera saranno natalizie in quanto dicono condivisione, fraternità e dialogo possibile sulle sponde del Mediterraneo. Un mondo diverso è possibile, un mondo in pace è possibile non dobbiamo abituarci alle ragioni della guerra e della contrapposizione insolubile, non dobbiamo abituarci alla chiusura, ai respingimenti e all’indifferenza. Questo vuole essere l’augurio per quest’anno la guerra nella terra dove è nato Gesù ci sproni ad ascoltare il grido di tanti innocenti perché possa risuonare il canto degli angeli come quella notte, “pace in terra per l’umanità amata da Dio”».

Durante la serata l’attore Gabriele Giusti ha letto la storia di Alagie, rifugiato del Gambia, già accolto al Centro Astalli presso il centro San Saba e ora testimone del progetto “Finestre – Storie di Rifugiati”.

La testimonianza di Alagie

Mi chiamo Alagie e vengo dal Gambia. Sin da quando sono nato nel mio Paese ho conosciuto solo la dittatura. Ho capito ben presto cosa significasse non avere libertà, non avere diritti. Da piccolo sognavo solo di vivere una vita normale, ma questo non sempre era possibile. Volevo solo studiare e giocare come qualsiasi altro bambino. Forse, ad essere sinceri, più giocare che studiare. Amavo il calcio, appena potevo uscivo di nascosto da casa per andare al campo con gli amici. Mia madre si arrabbiava se tornavo a casa tutto sporco e zoppicante dopo una partita. Appena aprivo la porta di casa diceva: «Bravo, ti sei fatto male. Ora vieni qui che ti do il resto». Ma subito dopo sorrideva perché non riusciva a restare arrabbiata con me, e io pensavo: “Questa volta l’ho scampata”.

Non dimenticherò mai il nostro ultimo abbraccio il giorno in cui sono dovuto partire. Avevo solo 17 anni. Non avevo alternative e non avevo idea di cosa mi sarebbe successo.

Ho attraversato il deserto del Sahara, stipato sopra una macchina con altre 30 persone. Non mi potevo muovere, mi mancava il respiro. Ma il deserto è infinito, ha inizio e sembra non avere fine. Caldo di giorno, gelido di notte. In quel mare di sabbia sono “annegati” tanti del mio gruppo. Io pregavo ogni giorno di non essere il prossimo.

Appena arrivati al confine con la Libia siamo stati rinchiusi in un carcere. C’erano centinaia di persone. Non avevamo né cibo né acqua. Mi hanno torturato in ogni modo, ogni giorno, in cambio di soldi, ma io non avevo nulla con me. Un giorno è entrato in cella un uomo, era una guardia libica. Era ubriaco, ha iniziato a sparare alla cieca contro di noi. Uno dei proiettili ha colpito il ragazzo seduto accanto a me. Un istante prima stavamo parlando e all’improvviso è caduto a terra. Ho visto il suo sguardo perdersi lentamente nel vuoto. Ero terrorizzato. Ho pensato: “Vale così poco la vita di un essere umano?”

L’unico modo per uscire vivi da quell’inferno era essere venduti come schiavi. Un giorno un uomo mi ha comprato e mi ha messo a lavorare in un autolavaggio. Ho lavorato per mesi, giorno e notte, senza fermarmi mai. Appena ho potuto sono scappato e ho raggiunto Tripoli. Dovevo lasciare la Libia, lì non ero al sicuro.

I trafficanti mi hanno fatto imbarcare su un piccolo gommone. Eravamo tanti, troppi. Di notte il mare fa più paura perché si confonde con l’oscurità. L’acqua salata si mischiava alle mie lacrime e pensavo che se fossi morto lì, in quella infinita distesa d’acqua, il mio corpo non avrebbe mai fatto ritorno a casa. Per fortuna siamo stati salvati. Ricordo che anche una volta al sicuro la paura non mi aveva abbandonato. Mi svegliavo di notte e uscivo fuori dalla mia stanza per guardarmi intorno e vedere se fossi ancora in Libia. C’è voluto del tempo per realizzare di essere finalmente al sicuro. E solo allora mi sono detto: “Anche questa volta l’ho scampata”. Ho ripensato subito agli occhi buoni di mia madre che mi rimproveravano severi dopo una partita. Cosa darei per rivederli ancora una volta.

Tutto quello che ho vissuto è scritto sul mio corpo: ogni ferita, ogni cicatrice mi ricordano il male che ho visto, che ho vissuto, ma anche che sono ancora vivo. E che sono finalmente libero.

APPELLO: a Natale alimenta la solidarietà

Ogni giorno, al Centro Astalli, 400 persone rifugiate si mettono in fila per un pasto caldo. Sono soprattutto giovani donne e uomini. I rifugiati ci ricordano le sofferenze di chi ha perso tutto, perché costretto alla fuga dal proprio Paese di origine a causa di guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani. Ci ricordano i drammi dell’umanità: prima la pandemia, poi l’aggressione russa dell’Ucraina, la crisi del gas, l’inflazione e le nuove povertà, infine il conflitto tra Israele e Hamas.

Fare qualcosa, adesso, tutti, è possibile. 

Aiutare i rifugiati, anche con poco, vuol dire fare qualcosa di concreto per rendere il mondo un posto più giusto per tutti. Vuol dire immediatamente agire in prima persona per tutelare i diritti di tutti, nessuno escluso.

Questo Natale, dona un “pasto sospeso” ai rifugiati che vivono nel bisogno! Sostieni i servizi di prima accoglienza e le attività del Centro Astalli volte ad accompagnare gli uomini e le donne rifugiati nel loro percorso di integrazione in Italia.

Per le donazioni:

Conto corrente postale, n. 49870009, intestato a: Centro Astalli per l’assistenza agli immigrati ODV – via degli Astalli 14/A – 00186 Roma

Bonifico bancario, Intesa Sanpaolo, filiale di Via del Corso 226 – 00187, Roma; Conto corrente intestato a Centro Astalli per l’assistenza agli immigrati ODV – IBAN IT27N0306905020100000076831

Oppure dona on-line

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