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Gesuiti
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Storie di vocazione

Jean-Paul Hernandez SJ

Lasciar parlare la vita

Sono nato in Svizzera nel 1968. Lotte ideologiche e sogni di grandezza. Poi due amici gesuiti, una biografia di Francesco d’Assisi, la figura di Giovanni Paolo II, la scoperta di Ignazio…

Jean-Paul Hernandez SJ, gesuita

Sono nato in Svizzera in aprile del 1968. In una famiglia di immigrati spagnoli. Dai miei genitori ho ricevuto una fiducia sconfinata, una fede sobria – quasi implicita – centrata sulla persona di Gesù, una sana distanza dalle sagrestie. Nonché un’affermazione “combattiva” dell’orgoglio mediterraneo.

La mia infanzia è il ricordo di molte città diverse dove i miei si spostano per lavoro, per nostalgia o per gusto. E l’impressione di essere ovunque fondamentalmente “di altrove”. La libertà della strada. Il fascino di “colui che passa”.

​Amici gesuiti

Due gesuiti, amici di studio di mio padre, abitano la mia mitologia infantile. Del primo mi colpisce la sua capacità di parlare di tutto ciò che non è “chiesa”. Risata franca. Pagliaccio. Il secondo è coltissimo, ma esageratamente modesto. Agli 8 anni una conoscente battista mi regala “Le belle storie della Bibbia”. Mi piacque molto.

L’adolescenza sono lotte ideologiche, sogni di grandezza (nel campo del giornalismo), e distanza rispetto a una Chiesa ufficiale “smorta e annacquata”. Non faccio la cresima. Un amico calvinista mi presta una biografia di Francesco: voglio una vita come questa!

​Sogni grandi e l’invito di Giovanni Paolo II

Nel liceo faccio parte di un gruppo pentecostale ma mi interessano i gesuiti perché i professori ne parlano così male! Molti dei miei amici non credono; vorrei dare la vita per la loro fede. Ma non so parlare. Mi vergogno. Allora la mia vita stessa deve parlare. Farsi certosino?

Presto la figura di Giovanni Paolo II diventerà centrale nel mio cammino vocazionale. Ripete: c’è bisogno di preti. Penso: Beh! Se è vero che c’è bisogno, si può anche fare. Leggo poi Ignazio: “difesa e propagazione della fede”, “sotto il Romano Pontefice”. E ciò come “preti poveri e itineranti”. Cosa aspetto! Sei troppo giovane, mi dicono i miei dopo la maturità. Adesso li ringrazio.

​Prepararsi

Studio lettere a Friburgo e lavoro alla Radio Svizzera Internazionale. Alla fine del secondo anno, faccio gli Esercizi ignaziani. Questo Gesù voglio dare alla gente! Ho deciso di entrare nella Compagnia di Gesù mentre pedalavo con mio fratello sul “Camino de Santiago” verso la “Giornata mondiale della gioventù” del 1989.

Entro nel noviziato di Genova nel 1992. Mi aspettava una violenta purificazione da tutte le aspettative umane. “Il mio regno non è di questo mondo”. La “guerra delle onde” è nel cuore. Il cammino è interiore. Mi sento per la prima volta “povero pellegrino”. Gioia grande.

​Le tappe del cammino

Poi la filosofia a Padova, con le prime esperienze apostoliche significative. Non avrei mai immaginato, Signore, di poter parlare di Te. Seguono due anni difficili nella nostra scuola di Torino, dove rimangono grandi amicizie. Capisco di non essere fatto per le istituzioni e le grandi strutture. Poi la teologia a Napoli. È dura tornare a scuola ai 30 anni! Ma è incredibilmente bello se si vive in una piccola comunità di periferia. Poi licenza e dottorato in teologia a Francoforte.

È la città dove nacque l’Euro, dove tutto si paga. Lì sentii fortemente che ogni città ha bisogno di un polmone di gratuità per non morire soffocata. E l’ultimo polmone di gratuità nelle nostre città-mercato sono le chiese. Le chiese storiche. Perché la bellezza dell’arte è gratuita, è “inutile”. Perché chi sta in una chiesa deve starci in modo gratuito. E deve annunciare in mezzo a tutte le banche e a tutte le frenesie, la Gratuità di Dio.

​Essere Pietre Vive

Così nacque l’esperienza dei gruppi “Lebendige Steine” (“pietre vive”), che annunciano a chi entra in una chiesa l’amore gratuito che è Dio attraverso la spiegazione dell’arte e dell’architettura, la Bellezza attraverso la bellezza.

Dopo l’ordinazione e finito il dottorato, prima missione “da grande”: “irai a Bologna a occuparti di giovani!” mi annuncia il Provinciale. Dal 2005 al 2014 ho vissuto a “Villa San Giuseppe”, sui colli bolognesi. In questo nostro “Centro di Spiritualità” ho dato tanti corsi di Esercizi Spirituali a giovani e meno giovani e l’ascolto dei cuori che incontrano Dio è stato la scuola più importante della mia vita. Ma molto presto ho sentito il bisogno di non rimanere “sul monte”.

​Nel cuore delle città

Nel centro storico di Bologna, in mezzo alle stradine colme di studenti, avevamo da decenni come gesuiti un centro giovanile: il “Centro Poggeschi”. Ormai senza gesuiti e con una proposta che mi sembrava nascondesse la bellezza della nostra spiritualità. È quella bellezza nascosta che volevo risvegliare.

Perché ciò che si scopre “sul monte” non si potrebbe scoprire anche nel cuore pulsante della città? Non è la nostra una spiritualità per tutti? Non sono gli Esercizi un modo di diventare “contemplativi nell’azione”? Non è la nostra fede la scoperta di un Dio incarnato? Così nacque l’idea di proporre a studenti gli “Esercizi Spirituali nella Vita Ordinaria” (EVO).

​Gli EVO

Con il giovane confratello Narciso Sunda avevamo attaccato dei manifesti nelle (e fuori dalle) bacheche, in molte Facoltà. Le leggeranno? La prima sera aspettavamo inquieti all’ingresso del Centro Poggeschi. Pochi minuti prima dell’ora indicata iniziarono a entrare studenti sconosciuti. Mai ne avevamo visti così tanti, in una proposta così esigente. In quell’evento si coagularono tutte le mie convinzioni apostoliche: ciò che possiamo dare di meglio, ciò che è più urgente, ciò di cui ognuno ha una fame più atavica è… l’incontro con Dio.

Dal percorso EVO nacquero tutti gli altri gruppi giovanili ignaziani che formarono molto presto la “Rete Loyola”. Cultura, emarginazione, evangelizzazione, formazione, … ma soprattutto una “casa”. Questo era la nuova realtà giovanile nata dagli Esercizi Spirituali… o, detto fra di noi, ancora più a monte, nata dall’attacchinaggio.

​La vera teologia

Gli anni bolognesi furono per me anche l’inizio dell’esperienza di insegnamento della teologia. Ma nel ripetersi dei corsi, degli esami, dei consigli docenti, delle conferenze in giro, degli articoli,… tornava nel cuore sempre la stessa riflessione: la vera teologia non la faccio dalla cattedra ma con i miei gruppi di volontari, con chi evangelizza, con le Pietre Vive, con chi fa servizio nella notte, con chi si ferma a una nostra “slow mass”.

Nel 2014 fui inviato a Roma come Cappellano dell’Università “Sapienza” (Roma 1), e superiore della piccola comunità di gesuiti che vive dentro alla città universitaria. Una vera trincea. Per chi non ha paura del rombo del cannone. Infatti l’architetto Piacentini ne aveva concepito la pianta nel 1932 “come una grande basilica a cielo aperto dove al posto dell’altare ci sarà una Minerva in armi, cuore di questo tempio del sapere e delle armi”. La Minerva c’è ancora. In armi. Da nessuna altra parte avrei potuto capire così bene l’espressione con cui Papa Francesco descrive la Chiesa: “un ospedale da campo”. Così la nostra Cappella, piantata dentro all’accampamento. E la mia ammirazione oggi per chi ancora ci opera.

​Gesuita fino in fondo

Nell’autunno 2016 ho partecipato alla Congregazione Generale 36esima dove abbiamo eletto il nostro nuovo Padre Generale, Arturo Sosa. E in questa occasione ho pensato tre cose: 1. La vita ha un solo senso: dare tutto. 2. Oggi più che mai, se la Compagnia non esistesse, bisognerebbe inventarla. 3. Se io nascessi di nuovo, entrerei di nuovo in Compagnia. Mille e mille volte.

Da tre anni vivo a Napoli dove insegno teologia. E continuo ad occuparmi dei gruppi “Pietre Vive”, presenti ormai in circa 40 città, d’Europa e America. Nella preghiera mi piace ripetere semplicemente il nome “Gesù”.

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