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Popoli. Editoriale – Afghanistan: Perché siamo in guerra?

Chissà se le celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità nazionale saranno anche occasione per un dibattito ampio e condiviso su una questione di non poco conto della nostra storia nazionale recente: e cioè sul fatto che l’Italia è, da 9 anni, un Paese in guerra. Un conflitto, quello in Afghanistan, di cui si prende consapevolezza solo periodicamente, quando muoiono i nostri soldati. Fra una tragedia e l’altra, silenzio e disinteresse, come è avvenuto in occasione del rifinanziamento delle missioni italiane approvato dal Parlamento il 16 febbraio, con voto bipartisan (unico partito contrario, Italia dei valori).
Succede anche da noi ciò che avviene negli Usa: secondo lo storico David Kennedy, sulla missione in Afghanistan si è creata una situazione paradossale per cui «l’esercito è in guerra, ma il Paese no; abbiamo creato forze armate che riescono a essere letali senza che le società nel cui nome esse combattono sprechino una goccia di sudore». Questa eclissi della guerra dalla coscienza nazionale e dal dibattito pubblico è tanto più grave nel momento in cui restano drammaticamente nebulosi il senso e gli obiettivi del conflitto. L’Ong Intersos (presente con alcuni progetti nel Paese asiatico) durante il dibattito parlamentare ha pubblicato un dossier significativamente intitolato Perché 4mila soldati italiani sono in Afghanistan? (testo integrale su www.intersos. org). «La politica – denuncia Intersos – si trincera dietro alla lotta al terrorismo, alla legittimazione della missione da parte delle Nazioni Unite e al non superamento dei limiti imposti dall’art. 11 della Costituzione. Punti condivisibili, ma insufficienti a dare le necessarie e indilazionabili risposte alla domanda fondamentale: perché e con quali obiettivi siamo in Afghanistan?». Intersos individua l’errore principale della missione nel mancato o insufficiente coinvolgimento della popolazione afghana: «Si è voluto puntare soprattutto sull’azione militare ed è al contempo mancata una strategia di sviluppo rispondent e ai reali bisogni e alle aspettative delle popolazioni». Sono le cifre, non una pregiudiziale opposizione alla guerra, a parlare: dal 2008 al 2010 i finanziamenti delle missioni internazionali (tra cui quella in Afghanistan è di gran lunga la più impegnativa) sono saliti da 1 a 1,5 miliardi di euro; la quota destinata a interventi di cooperazione è invece scesa dal 9,4% al 4,7% e nel decreto approvato in febbraio per il primo semestre del 2011 si scende ulteriormente al 3,6%. Una riduzione che impedisce di pensare a iniziative efficaci e durevoli a favore della popolazione. Occorre dunque reagire, da cittadini e da credenti. La Chiesa, nel suo
magistero, da secoli si chiede se e a quali condizioni una guerra si possa definire «giusta». E la storia dice che sono sempre meno le situazioni in cui questo aggettivo può essere usato, come spiega Andrea Vicini a pagina 32.
Con questa consapevolezza, ci si aspetterebbe qualche parola più profetica da parte dei pastori, ma anche una mobilitazione ben più massiccia della cosiddetta «base» cattolica. Davvero viene da chiedersi se una nazione dalle profonde radici cristiane – come viene descritta l’Italia – possa accettare di annoverare tra le numerose «guerre dimenticate» anche un conflitto che essa stessa sta combattendo, oltretutto senza sapere bene perché.

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